Don Gino: «Ho visto una marea di gente che si è data da fare, una lezione per tutti»
Don Ivo: «Mi dissero: “Ripuliamo la chiesa e mettiamo la Madonnina al centro”»
Sono trascorsi 30 anni dall’alluvione che nella notte tra il 5 e il 6 novembre 1994 colpì le province di Cuneo, Asti e Alessandria, sul Tanaro, e la zona di Vercelli sul Po. Le vaste esondazioni e le oltre un migliaio di frane causarono 68 vittime, decine di feriti e circa 5.500 persone evacuate. Alessandria venne travolta da una forte esondazione del Tanaro. Vittime, feriti, case allagate, sfollati: un dramma che ancora oggi, dopo 30 anni, è incancellabile nel cuore e negli occhi di chi ha vissuto direttamente quei momenti. Seguirono mesi di lacrime, dignità e ricostruzione. Una città intera e i suoi sobborghi si scoprirono fragili e forti allo stesso tempo. Dopo l’ondata fangosa del fiume ne arrivò un’altra, ben più potente: l’ondata della solidarietà, da ogni parte d’Italia e con ogni mezzo.
Quei giorni se li ricorda bene don Gino Casiraghi, parroco dal 1987 di Santa Maria della Sanità nel quartiere Orti di Alessandria. «In parrocchia arrivarono due metri e mezzo d’acqua, fin sotto il tabernacolo. Ancora cinque centimetri e sarebbe andato a bagno anche il Santissimo».
Don Gino, proprio la parrocchia degli Orti ebbe un ruolo centrale.
«Sì, perché lo spazio dell’oratorio e della chiesa per un periodo venne usato come centro di raccolta. Era l’unico locale utilizzabile».
Che cosa ricordi di quei giorni?
«Ricordo il volontariato, la generosità delle persone. Ho visto una marea di gente che si è mossa, si è data da fare. Ragazzi che aiutavano con altruismo».
Ci racconti un aneddoto?
«Non ne ho uno in particolare. Ricordo che tanti si sono visti portare via dall’alluvione la casa, che è il luogo dove si concentra tutta la vita: ci sono la tua famiglia e i tuoi risparmi. Ho visto diversi parrocchiani che si sono sentiti morire, perché senza casa è come se gli avessero tolto la vita. Quella vita di prima non è più tua, perché è entrato qualcosa di così potente che non sei più tu il padrone. E questo ci ha fatto pensare al nostro rapporto con il territorio, con il quartiere e con la parrocchia. È stata una lezione per tutti».
In quel dramma che risposte hai dato ai tuoi parrocchiani?
«Qualcuno mi ha detto: “Dio ci ha abbandonato”. No, dicevo, è ancora più vicino. La tua vita non consiste in quello che hai, quello che riesci a organizzare o a costruire. La tua vita sei tu. Come se in questo dramma Dio ci dicesse: “Questa roba non c’è più. Rimane quello che hai instaurato con gli altri”. E quel rapporto non dipende più dal tuo avere, dalla tua casa, ma dal legame che hai con gli altri. Questa dinamica di relazione, almeno per il primo mese dopo l’alluvione, è stata fondamentale. Perché ci si doveva arrangiare. C’è chi la propria casa ha potuto iniziare a sistemarla solo dopo un anno. Immaginate voi…».
Da quell’episodio è nata l’associazione “Orti sicuro”.
«È stato un “avvicinamento” della popolazione: c’erano tutti, dal democristiano al comunista. Ho visto lasciar cadere i pregiudizi sociali e politici: la questione di fondo era la vita. La maggioranza erano “ortolani”, ma partecipavano anche persone di altri luoghi e di varie estrazioni sociali. Fuori si dividevano, lì si conviveva. È durata fino a quattro anni fa. Ci incontravamo una volta a settimana per imparare a vivere sul territorio, controllare ciò che accadeva, intervenire se necessario. E dopo la riunione usciva anche qualche cena (sorride)».
L’Italia continua ad andare a bagno. Non è cambiato nulla?
«Una volta le autostrade erano i fiumi, gli argini erano curati bene. Oggi li trascuriamo. Manca una educazione a valorizzare il territorio, quello che sta avvenendo in questi giorni ne è la conferma. Io sono figlio di contadini, da piccolo mio papà mi portava a fare delle piccole gite nel bosco: erano curati, ognuno se ne occupava. C’era un altro sguardo sull’ambiente, sul proprio territorio. Oggi non accade, e ne paghiamo le conseguenze».
Un’altra zona particolarmente colpita da quell’alluvione fu San Michele. Don Ivo Piccinini, che è parroco del sobborgo dal febbraio 1977, parlerebbe ore e ore dell’esperienza di quel periodo. E per domenica 3 novembre ha organizzato un evento per ricordare quei giorni e non dimenticare l’ondata di solidarietà arrivata da ogni zona d’Italia: «Ci saranno associazioni, pro loco, Protezione civile, l’associazione “I due fiumi”, corpi bandistici e i sindaci che si sono adoperati. Partendo dal libro che ho scritto insieme a Massimo Brusasco, “6 novembre 1994”, abbiamo passato in rassegna tutti, invitandoli qui a San Michele. Dalle 10 alle 11 ci sarà l’accoglienza sul piazzale della Chiesa; alle 11.15, la Santa Messa concelebrata con don Giuseppe Bodrati. A seguire, il pranzo all’oratorio e la consegna delle targhe, con scritto “30 volte grazie”».
Don Ivo, cosa ricordi di quei giorni?
«Ricordo tutto. Ricordo lo smarrimento che ci ha preso quella domenica. Non ci siamo resi conto della gravità della cosa. Ho portato i mie genitori al piano di sopra, erano ultraottantenni. Mia mamma mi dice: “Che è successo, Ivo?”. Rispondo: “Siamo tutti in ginocchio”. “E adesso cosa si fa?” mi ha chiesto. E io: “Non lo so, mamma”. Lunedì eravamo in un deserto lunare: con don Giuseppe Bodrati, che allora era diacono, abbiamo percorso le strade di Astuti, senza incontrare nessuno. Era tutto devastato».
E dopo?
«La prima persona che vidi era l’allora comandante dei vigili di Valenza, Pier Giuseppe Rossi. Suonò il campanello, aveva con sé l’ingegnere capo e due vigili, con un camioncino con carriole, badili e un sacco di altra roba. Pier Giuseppe mi dice: “Prendiamo questo tavolo dell’oratorio: sarà il nostro posto di comando di tutta l’operazione. Tiriamoci su le maniche, tocca a noi. Vedrai cosa succederà”. Due giorni dopo è iniziata una processione, […]
[…] un affluire di persone a cui non riuscivamo a dare ascolto. Tra loro c’è un signore, con altri ragazzi, in coda che si avvicina e mi vuole parlare: “Se disturbiamo, torniamo domani”. Dico: “Guardi quante persone ci sono”. Il giorno dopo torna: “Siamo qui per darvi una mano”. Era il responsabile della Caritas Ambrosiana, il dottor Rambaldi. Da lì iniziò un anno di servizio e collaborazione straordinario. Loro sono venuti con gli obiettori, mandavano 10 o 12 ragazzi ogni settimana. Alle 7 iniziavano a girare, casa per casa, e spalavano. Su tutti ricordo Stefano Sesti, il loro coordinatore: è stato qui un anno intero per aiutarci».
C’era bisogno di qualunque cosa.
«Di tutto. Serviva anche un aiuto materiale per gli artigiani o per i contadini che avevano perso ogni avere. Allora dalla Coldiretti arrivarono camionate di paglia e di fieno per gli animali sopravvissuti, legna per chi aveva bisogno di scaldarsi e ghiaia per le strade. Ma si collaborava con tutti, dalle autorità civili alle associazioni, dal gruppo bandistico di Rapallo ai volontari del Garda, mobilitati da Marco Bologna, allora sindaco di Piovera».
E poi i tanti aiuti economici.
«Dirottati tutti su un unico conto. Per ogni famiglia alluvionata abbiamo ordinato una stufa, una cucina e una lavatrice. Andavamo dalle famiglie con l’indirizzo, la ditta consegnava gli elettrodomestici, con la garanzia, li installava e io e don Giuseppe andavano a pagare il conto. Per dare un’idea, abbiamo acquistato circa un miliardo di lire in elettrodomestici. Abbiamo ancora tutti i giustificativi bancari: li tengo tutti in una valigetta. Poi abbiamo dato un milione di lire a ogni famiglia alluvionata, ancor prima dei rimborsi dalle istituzioni. Un signore, dopo aver ricevuto i primi rimborsi, è tornato da noi e ci ha detto: “Vi restituisco il mio milione, datelo a chi ne ha più bisogno”. Mi commuovo ancora adesso… (si ferma) Abbiamo voluto dare un segno forte, per ribadire che la Chiesa non c’è solo nelle feste, ma anche nelle prove».
La risposta delle istituzioni fu tempestiva?
«A marzo arrivarono i primi risarcimenti, ma bisognava aiutare le famiglie nelle pratiche e organizzare delle manifestazioni, anche con il vescovo Charrier. Le autorità si sono dimostrate vicine e presenti: penso al lavoro del prefetto Vincenzo Gallitto, o alle visite dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni. L’ho accompagnato nelle case e nelle cascine, è rimasto scioccato».
E i vostri locali come sono stati organizzati?
«Il nostro oratorio è rimasto illeso, lì venne attivato l’asilo. Mentre il bocciodromo era pieno di carriole e badili, e il saloncino del catechismo era dedicato agli abbigliamenti. L’altra sala era adibita alle cucine. Ne funzionavano tre contemporaneamente: una del sindacato, la nostra e una di un paese qui vicino. Siamo arrivati al record, una domenica di dicembre, con tremila pasti. Poi, ricordo, una volta vengono da me i cuochi e mi dicono: “Don Ivo, dobbiamo dare qualcosa oltre alla pasta. E abbiamo solo scatolette di tonno, cosa facciamo?”. A Franco Taverna dico: “Franco, fai un annuncio in radio. Di’ che stiamo cercando qualche fornitore per delle bistecche”. Alle 10 fa l’appello in radio. Poco dopo chiama un macellaio di Voghera: “Posso mandare un quintale di bistecche, già pronte, da cuocere?”. Io: “Certo”. E così abbiamo dato una bistecca a tutti».
Come si faceva a gestire quella mole di lavoro?
«Era difficile. Racconto ancora questo. Un giorno viene un signore che, con la sua famiglia, era sfollato ad Alessandria. Dice: “Mi servono sei lenzuola”. Gliene danno cinque nuove e una utilizzata, ma lavata e stirata. Lui esce e mi dice: “Mi hanno dato la roba usata”. Prendo questo lenzuolo e vado a cercarne un’altro nuovo, esco e glielo do. Lui era ancora più irritato e non voleva saperne. Siamo arrivati quasi alle mani. Allora interviene Edo, una guardia forestale di Susa, che mi prende e dice: “Don Ivo, vieni che ho bisogno di confessarmi”. Mi accompagna nello studio, e mentre parla mi addormento. Dormo dalle 18 alle 6 della mattina seguente. Apro gli occhi e trovo un foglietto: “Ciao don Ivo, svegliati con il sorriso. Ne abbiamo bisogno tutti. Firmato: Edo”. Mi ha salvato così, in quella maniera, perché gli animi si stavano scaldano. Ho capito che per fare un’opera di bene bisogna farla bene, in ogni dettaglio, e non bisogna mai perdere la calma. Racconto ancora questa…».
Prego.
«Un giorno vedo un giovane ragazzo, avrà avuto meno di 30 anni, sulla scala per andare in radio. Stava mangiando un piatto di pastasciutta, era vestito da lavoro e ci siamo salutati. Qualche giorno dopo lo incontro di nuovo, questa volta vestito bene. Si presenta: “Sono il sindaco di Rozzano, ecco i miei consiglieri. Questa busta è per la sua gente”. La apro e c’erano 7 o 8 milioni. E mi spiega come li hanno raccolti: “Nella piazza di Rozzano abbiamo attivato un lavaggio di automobili, in cambio di un’offerta. Questo è quello che abbiamo raccolto”. Sono storie incredibili, ancora adesso. Come le due pettinatrici che avevano un negozio a Concorezzo (provincia di Monza e Brianza, ndr). Si sono presentate una mattina con dei sacchi di pane fresco. Ci spiegano: “Per qualche mese abbiamo messo un piattino all’ingresso. Con le offerte abbiamo portato il pane”. Tra gli aiuti, anche la solidarietà di tanti sacerdoti, e su tutti cito don Eraldo Colombini di Lonate Pozzolo (Varese). Ma potrei continuare a raccontare all’infinito, e mi scuso perché sicuramente ho lasciato indietro qualcuno».
Lei dove ha visto Cristo in quella tragedia?
«È vero che ho detto ai miei parrocchiani: “Siamo tutti in ginocchio”. Ma ho anche aggiunto: “Con il Suo aiuto, con la presenza di tutti i volontari, ci rialzeremo”. Qualcuno poteva pensare: “È una disgrazia, una calamità, il Signore non ci vuole più bene”. Invece ci ha fatto crescere nella fede, perché ha insegnato che la solidarietà non è una parola e non è a senso unico: avete ricevuto e siete chiamati a dare. Ricordo ancora che un comandante in divisa, il giorno dopo l’alluvione, mi disse: “Bisogna ripulire la chiesa e mettere la Madonnina al centro. La gente deve sapere che non è sola”».
Alessandro Venticinque