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Intervista a Marco Tarquinio, direttore “Avvenire” – Migranti? Il vero problema è che non facciamo più figli

Dottor Tarquinio, nel suo editoriale di sabato 1° dicembre su Avvenire lei ha definito questo decreto “legge della strada” e “fabbrica dell’illegalità costruita a suon di norme e di commi”. Può spiegare ai nostri lettori il senso di queste definizioni?
«Sono espressioni forti, perché purtroppo è forte l’impatto di norme non pensate per la sicurezza di tutti e per il rispetto della dignità umana. Questo decreto, convertito in legge, ha certamente degli aspetti apprezzabili, perché è corretto l’obiettivo di governare il sistema della sicurezza nel nostro Paese. Ma ai buoni propositi si sono aggiunti diversi aspetti contraddittori».

Qual è il punto del decreto che le sembra più ingiusto?
«Il peccato più grave è un sistema di norme che smonta una parte importante del miglior sistema di accoglienza e inclusione del nostro Paese. Mi riferisco allo Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Il decreto stabilisce che vi avranno accesso solo i titolari di protezione internazionale e i minori stranieri non accompagnati, mentre gli altri non potranno più accedere a un percorso reale ed efficace di integrazione. Ora, venendo meno questo, migliaia di persone finiranno per strada, senza un tetto sulla testa, pur avendo titolo per stare nel nostro Paese. Alcuni casi drammatici e clamorosi, che abbiamo raccontato in questi giorni su Avvenire e che riguardano famiglie con bambini piccoli e in difficoltà, mettono sotto gli occhi di tutti l’errore che c’è in questa normativa. Mi auguro che la politica abbia l’umiltà di riconoscere lo sbaglio, e vi ponga finalmente rimedio».

C’è un calcolo politico dietro a questa legge?
«È la conclusione di una linea di pensiero e di propaganda che ha fatto della questione migratoria il problema più grave del nostro Paese. Certo, la questione è rilevante, ma pensare di “salvarci” isolandoci dal resto del mondo è una follia. Il movimento di persone a livello planetario è un po’ come la circolazione sanguigna: inevitabile e necessaria per vivere. E noi italiani questo dovremmo saperlo meglio degli altri. Ma poi, come possiamo pensare di “clandestinizzare” questo movimento di uomini e donne, appaltandolo ai trafficanti di esseri umani? Se posso aggiungere una cosa, il problema numero uno dell’Italia è che siamo un Paese in cui non si riesce a “desiderare” un futuro. Non mettiamo più al mondo i figli nostri, e oltretutto abbiamo paura di quelli degli altri. Per questo sarebbe veramente necessario avviare una politica strutturale di sostegno reale alla famiglia. Era, tra l’altro, una delle promesse dell’ultima campagna elettorale. Ma non è ancora stata mantenuta».

Davvero gli italiani hanno paura di una “invasione”?
«Quello dell’invasione è uno slogan. Noi abbiamo in Italia 5 milioni e mezzo di residenti regolari di origine straniera, l’8 per cento della popolazione. Sono parte della nostra comunità nazionale, i loro figli sono nati qui, parlano italiano e sono italiani per adesione alla nostra vita comune. Se con la bacchetta magica li cancellassimo da un giorno all’altro, ci accorgeremmo che abbiamo bisogno di loro, non ne possiamo fare a meno. Per non parlare poi di chi, non potendo accedere a un lavoro regolare, diventa carne da macello per la criminalità e per il caporalato. Un fenomeno, quest’ultimo, che abbiamo affrontato e raccontato su Avvenire attraverso le storie di lavoratori, per la maggior parte cittadini immigrati regolari, sfruttati e schiavizzati nelle campagne del nostro Paese».

Qual è il livello di consapevolezza dei cattolici italiani su questo tema, secondo lei?
«Credo onestamente che ci sia un affievolimento. La mia generazione è cresciuta in ascolto dei missionari che, portandoci la loro testimonianza da Paesi lontani, ci rendevano pienamente consapevoli che gli “altri” erano figli della nostra cultura tanto quanto noi. Mi spiace dirlo, ma temo che oggi questo aspetto sia andato perduto, almeno in parte. Dobbiamo tornare a essere consci del fatto che giustizia e fraternità sono la regola nel rapporto con gli altri. Se perdiamo questa consapevolezza, la nostra società si impoverisce».

Andrea Antonuccio

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