Intervista al professor Agostino Pietrasanta
«La difficoltà di recuperare la dignità personale persa nei lager»
“Dopo la Shoah, un’eredità difficile”: è questo il tema dell’incontro di giovedì 23, con inizio alle 19, in occasione del “Giorno della Memoria”. Un argomento impegnativo e da approfondire, non usuale nel dibattito sulla Shoah. Abbiamo chiesto spiegazioni al professor Agostino Pietrasanta (nella foto qui sotto), che dal 2014 ha affiancato don Gian Piero Armano nel progetto di sensibilizzazione sul tema della Memoria storica sulla Shoah, rivolto agli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori.
Professor Pietrasanta, di quale “eredità” si tratta? E perché è difficile?
«Stiamo parlando di ciò che le armate, sia sovietiche sia alleate, hanno trovato nei campi di concentramento: la devastazione fisica, psicologica e umana dei deportati, che non si lasciavano curare prima di tutto per paura degli strumenti medici e igienici. Pensiamo a che tipo di reazione potevano avere di fronte a una siringa, o all’idea di fare una semplice doccia… Difficile poi portare queste persone in altri luoghi: salire su un treno significava andare allo sterminio».
Perché adesso questo tema?
«Per verificare la reazione dei deportati e dei liberatori di fronte alla constatazione diretta di ciò che era avvenuto. Era qualcosa che già si sapeva, ma di cui ora essi sono diretti testimoni. Vorrei far notare che ci sono state due “reazioni” positive: la prima è che i liberatori, affiancati da organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa (ma non solo), hanno portato una prima assistenza, pur tra le difficoltà cui accennavamo prima. La seconda, è che si è cercato di evitare la giustizia sommaria attraverso regolari processi, per “contenere” le rappresaglie e provare a ristabilire un giusto ordine internazionale».
Oltre alle difficoltà immediate di assistenza e di sanzione dei crimini, che altro c’era?
«C’era la difficoltà di fare memoria. Le vittime pensavano di non essere credute, tanto era assurdo ciò che testimoniavano. Ma temevano anche il giudizio sulla loro sopravvivenza, un senso di colpa, generale e particolare: “Se siete sopravvissuti” era un po’ il pensiero di allora “è perché avete collaborato”. Ma forse ancora più importante era stata l’umiliazione della loro personalità. Nei lager ciò che era stato veramente distrutto, almeno per chi l’aveva scampata, era la dignità personale. C’era dunque la necessità di un recupero del valore della persona, che era stato deturpato».
Nella serata di giovedì 23 parlerete di questo?
«Sì. Inizierò io trattando il tema del recupero delle vittime. Il secondo punto, che riguarda la sanzione giuridica che ha evitato le esecuzioni sommarie, sarà trattato da don Stefano Tessaglia. E infine Antonella Ferraris, responsabile della sezione didattica dell’Isral (Istituto per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Alessandria, ndr), affronterà l’aspetto relativo alla difficoltà della memoria».
Qual è stato l’impatto di questa narrazione sui ragazzi che lei ha incontrato nelle scuole?
«Quest’anno abbiamo coinvolto un migliaio di studenti dell’ultimo anno degli istituti alessandrini e della provincia, in particolar modo ad Acqui, Ovada e Tortona. Particolare interesse ha suscitato il contesto della devastazione europea, e le conseguenze dovute al fatto che le vittime, salvate dall’orrore dei lager, non avevano più un riferimento, al punto che molti poi sono andati nei campi profughi. Ma, soprattutto, si era creata una “specificità” ebraica, dal momento che gli ebrei d’Europa erano stati quasi del tutto sterminati: un aspetto, tra l’altro, che favorì la successiva emigrazione dei reduci verso la Palestina. Ma questo è un altro tema, che mi piacerebbe affrontare in futuro».
Umanamente, per lei quanto è stato difficile coltivare e poi raccontare questa memoria?
«Mi sono posto intanto il problema della documentazione, poi il rispetto delle varie interpretazioni storiografiche. Ma soprattutto, un filtro delle testimonianze che conciliasse la fedeltà cruda delle atrocità descritte con una prudenza di presentazione. Per non urtare le sensibilità dei giovani di fronte a situazioni assolutamente inedite e non credibili, in un percorso di formazione equilibrato e motivato di obiettivi e di significati».
Andrea Antonuccio