Intervista a Giampaolo Mortara per i 50 anni della Caritas italiana
«Il 2 luglio del 1971, sotto il pontificato di San Paolo VI venne firmato dall’allora presidente della Cei, il cardinale arcivescovo di Bologna Antonio Poma, il decreto con cui veniva dato il via a questo nuovo organismo pastorale, la Caritas, un frutto del Concilio Vaticano II. L’obiettivo era, e continua a essere, quello di animare la comunità cristiana alla via della carità». Comincia così la nostra conversazione con Giampaolo Mortara (nella foto qui sotto), direttore della Caritas diocesana, in occasione dei 50 anni dalla nascita di Caritas italiana.
Giampaolo, l’obiettivo di «animare la comunità cristiana alla via della carità» ti sembra sia stato in qualche modo raggiunto, dopo 50 anni?
«Fare un bilancio risulta essere molto difficile, e rischio di dare pareri troppo personali. Partirei dal discorso del 26 giugno di papa Francesco ai membri della Caritas italiana».
Cosa ha detto il Papa?
«Il Santo Padre ha parlato di tre vie. La prima è la via degli ultimi: partire dai più fragili, dai più indifesi. La seconda è la via del Vangelo: come uno stile che diventa guida quotidiana, che deve essere fatta di misericordia, relazione, comprensione dei bisogni profondi dell’altro… queste cose sono necessarie a tutti, alla comunità, non sono solo una modalità di stare con i bisognosi e basta. E poi, la terza via: quella della creatività».
Non ti sembra strano che il Pontefice abbia parlato di creatività?
«Direi che non mi ha stupito, ma colpito sì, certamente. Secondo me la creatività è indispensabile per il nostro percorso quotidiano, soprattutto con i poveri. Serve soprattutto per dare uno sviluppo integrale alla persona, se vogliamo aiutare qualcuno materialmente, spiritualmente e intellettualmente. I problemi non si possono risolvere semplicemente dando delle soluzioni. La creatività serve a individuare nuovi percorsi perché chi è in difficoltà sia accompagnato a trovare nuove strade per sé. Come dovrebbe essere per ognuno di noi».
Papa Francesco scrive, sulla creatività: «La ricca esperienza di questi cinquant’anni non è un bagaglio di cose da ripetere». Tu avverti il rischio della ripetizione?
«Guarda, è un rischio che corriamo ogni giorno, e da tempo. Quello che è stato fatto è un tesoro, non dobbiamo dimenticarcene, ma è un errore grossissimo pensare che “si è sempre fatto così, non si cambia”… Il Papa ce lo fa capire chiaramente. Personalmente, quello di “ripetermi” è un rischio che mi sento addosso. Tante volte la necessità di cambiare, o anche solo l’idea, mi manda in crisi. Ma questo è un mondo che cambia, e così anche la carità. Avverto una grande fatica in quest’ultimo periodo. Non nascondiamoci: il Covid ha cambiato tante cose… noi crediamo di poter ritornare come prima, ma a me questa prospettiva sta stretta».
Provo a rifarti la domanda iniziale: l’obiettivo di animare la comunità cristiana alla carità, in questi 50 anni, è stato raggiunto?
«Ti do una risposta sincera: abbiamo fatto un cammino, che in diverse occasioni ha portato a dei risultati. Il fatto di aver testimoniato il nostro servizio agli ultimi ha dato concretezza alla carità: in tutti i suoi aspetti, non solo in quelli più immediati e materiali, che pur sono indispensabili. Penso ai momenti di ascolto: la carità più completa la vedo soprattutto nell’attività di ascolto e di accompagnamento. Allo stesso tempo, su alcuni aspetti avverto una fatica. Mi sembra che l’aspetto di “animazione” non si sia realizzato, se non in parte. Spesso ci sentiamo guardati come “professionisti della carità”: ma non è una cosa che possiamo interamente caricarci sulle spalle noi».
Che cosa vorresti, allora?
«Io vorrei che le opere-segno, quelle con cui la carità si esprime, ispirassero la creatività della comunità, contagiandola. Un esempio? In un condominio, qualcuno potrebbe diventare un punto di ascolto per chi ha bisogno… Ecco, vorrei che le esperienze di carità, che sicuramente già esistono, si moltiplicassero anche fuori dalla Caritas».
Giampaolo, ti “pesa” la responsabilità in Caritas?
«Mah, tante volte mi sento inadeguato…».
Cosa intendi con “inadeguato”?
«Quando non riesco a fare qualcosa, a risolvere, a essere di aiuto, mi sento di mettermi nelle mani di un Altro, e allora Gli chiedo di darmi una mano… e se sono qui ancora a raccontarlo, è perché mi ha aiutato! In che modo? Soprattutto nel trovare l’altro, magari l’amico che non c’entra niente con quello che faccio, che riesce a darmi quella parola, quel segno, quell’accompagnamento che io vorrei dare agli altri. E invece mi rendo conto che sono io il primo ad averne bisogno».
Andrea Antonuccio
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