Collegio Santa Chiara
Carlotta, ci puoi raccontare meglio in cosa consiste questa proposta che fate agli studenti?
«Anche quest’anno proponiamo un percorso formativo in cui ogni serata è un incontro di comunità: cerchiamo di trovarci con una certa regolarità, una volta al mese, e chiediamo ai nostri studenti di essere presenti» prosegue Carlotta Testa. «All’interno di questo contesto proponiamo degli incontri di formazione. Ogni anno li ripensiamo anche sulla base di quelli che sono i nostri studenti residenti, perché le esigenze che emergono sono sempre diverse. Quest’anno abbiamo cercato di dare a questi appuntamenti un taglio molto legato alla comunità, ovvero: “Come riesco a stare io dentro questo Collegio?”. Intervalliamo poi questa modalità in cui ci si deve mettere in gioco in prima persona con serate di tipo più “conferenziale”, in cui trattiamo altri temi di interesse generale».
Che relatori sono previsti?
«Si tratta in alcuni casi di esperti che chiamiamo a fare un intervento, come accadrà nell’incontro dedicato a “Scienza e fede”, dove avremo in cattedra il professor Pagani assieme al nostro vescovo. Oppure sono proprio membri dell’équipe che si occupano di guidare questi momenti di comunità di Collegio, come quello previsto per gennaio con il vicedirettore Antonio Lizzadri».
Come mai avete pensato proprio a questo tipo di incontri per i ragazzi del Collegio?
«Quest’anno abbiamo intitolato il nostro percorso formativo “Non essere qui senza esserci” e credo che in questo titolo sia contenuta la risposta a questa domanda: ci siamo resi conto che non basta “coabitare” per vivere in un certo modo. A volte bisogna proprio accompagnare quello che si sta vivendo con un pensiero, una riflessione, un confronto. Per questo abbiamo pensato di trovare dei temi che portassero i ragazzi a riflettere su di loro e sulla loro vita di comunità. Il punto è proprio aiutare i giovani che vivono in struttura ad avere coscienza piena di questa esperienza e di tutte le sue opportunità e ricchezze ma anche delle sue fatiche e difficoltà».
E come è andato il primo incontro? La partecipazione è stata buona?
«La domanda che ci ha guidato in questo incontro è stata questa: “È importante conoscere se stessi?”. Essendo arrivati molti ragazzi nuovi, volevamo aiutarli a raccontarsi: per farlo abbiamo utilizzato questa attività di gruppo che si chiama “emotion card” in cui, attraverso la scelta di una foto, chiediamo a loro di aprirsi. Chi sceglie una foto deve dire che cosa ci vede dentro, perché l’ha scelta, cosa manca secondo lui o lei. È una pratica apparentemente molto semplice ma estremamente utile per raccontare di sé senza partire direttamente da un vissuto personale ma prendendo le mosse da un qualcosa di esterno alla propria persona. Se ognuno gioca il suo turno in maniera seria, ha l’opportunità di tirare fuori qualcosa di profondo. E devo dire che così è stato: alcuni di loro hanno utilizzato la foto per dire qualcosa di significativo e importante».
C’è qualcosa che ti ha particolarmente colpito?
«Senza dubbio uno studente che attraverso la foto che ha scelto ci ha parlato del padre, che è mancato tre mesi fa. Nessuno di noi tra l’altro lo sapeva, ci ha dato un’informazione su di lui molto delicata. Mi è rimasta impressa anche una ragazza che, sempre grazie alla mediazione delle immagini, ha raccontato il suo bisogno di vivere sempre un po’ sul “crinale”: ha bisogno di adrenalina, di arrivare al limite delle cose per sentirsi viva».
Cosa hai imparato come direttrice?
«Credo di aver sperimentato ancora una volta quanto non sia scontato mettersi in gioco e che siamo sempre noi in prima persona a decidere se vogliamo essere parte di questa comunità oppure preferiamo starne un po’ in disparte. Anche il differente grado di profondità con cui ogni ragazzo si approccia ad una semplice attività del genere è diversa e dice della sensibilità di ciascuno. Chi racconta di qualcosa di più intimo magari ha bisogno di essere accompagnato in un altro modo rispetto a chi invece sta un po’ più in superficie. Questa attività per me è molto importante, perché mi permette di seguire meglio ogni ragazzo con più consapevolezza».
Zelia Pastore
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