La storia di Rosario Livatino, prossimo Beato che ha combattuto la mafia
«Noi siamo uomini semplici. Non dobbiamo agire per finire sui giornali, ma per un senso di dovere». A dire questa frase è stato Rosario Livatino, il 38enne giudice di Canicattì ucciso nel 1990 da quattro sicari mafiosi per le sue inchieste che toccavano la criminalità organizzata agrigentina (e non solo). A questa storia se ne legano tante altre che in questo paginone vi proviamo a raccontare. Per esempio quella di Piero Nava, l’uomo che in quel 21 settembre del 1990 vide e denunciò gli assassini di Livatino. Una scelta che ha obbligato lui e la sua famiglia a cambiare identità, Paese, vita. «Tutti convinti che fosse giusto così» dice con certezza nell’intervista al “Corriere della Sera”.
Un’altra storia legata al giudice siciliano è quella di Elena Valdetara Canale, affetta da un linfoma di Hodgkin, che è guarita nel 1996 dopo aver chiesto l’intercessione a Livatino. Per questo, e non solo, a trent’anni dalla sua scomparsa è in corso la causa di beatificazione: a curarla è monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, che ad “Avvenire” spiega alcuni dettagli. Ci sono uomini che lasciano il segno anche dopo aver abbandonato materialmente questa terra. Anche dopo essersi spesi fino in fondo, pagando con la morte, continuano a seminare. Nella speranza che qualcuno raccolga i tanti, tantissimi, frutti del loro lavoro. Rosario, il “giudice ragazzino”, è proprio uno di questi uomini. E noi cerchiamo di raccontarvelo… Buona lettura!
- La vita del giudice
- Monsignor Bertolone
- Il miracolo di Elena
- Il testimone Piero Nava
Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal 29 settembre ’79 al 20 agosto ’89, come sostituto procuratore della Repubblica, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell’85) di quella che poi negli anni ’90 sarebbe scoppiata come la “Tangentopoli siciliana”. Fu proprio Livatino, insieme con altri colleghi, a interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto ’89 al 21 settembre ’90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. Dell’attività professionale del giudice sono pieni gli archivi del periodo non solo del Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori.
Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, alle 8.30 del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre, senza scorta e con la sua auto, si recava in Tribunale. Aveva 38 anni. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Piero Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i “collaboranti”.
dal sito centrostudilivatino.it
Al lavoro per la beatificazione: «Terminate le due inchieste diocesane e redatta la Positio super martyrio, tutti gli atti sono ora all’esame della competente Congregazione delle Cause dei Santi che curerà l’iter dovuto fino al parere, che si spera positivo, ed alla successiva trasmissione della proposta al Santo Padre» precisa Bertolone. Ma c’è fiducia e speranza: «Ritengo che si possa ben dire che Rosario è un esempio per i fedeli cristiani laici, perché dimostra che l’esistenza dev’essere l’attuazione quotidiana di una vita in risposta a una vocazione ex alto, nella quale preghiera, spiritualità, vita sacramentale, azione caritativa sono armonicamente fuse con il dovere e l’attività professionale».
«Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e indirettamente della fede, – conclude Bertolone – quest’affermazione è stata ripresa recentemente da papa Francesco. Fu la stessa mamma del Servo di Dio a paragonare esplicitamente la morte del giovane figlio al consummatum est (Gv 19,30) di Gesù Crocifisso. […] Le minacce ricevute erano chiare, anche per questo Livatino aveva rinunciato al matrimonio e alla scorta per evitare che la sposa diventasse vedova ed i figli fossero degli orfani o che degli innocenti perdessero la vita a causa sua. Tra i tanti, mi piace ricordare questo suo messaggio: “Noi siamo uomini semplici. Non dobbiamo agire per finire sui giornali, ma per un senso di dovere”».
«Quando mi fu diagnosticata la malattia nella primavera del 1993, avevamo quattro figli ancora piccoli: due nati dal nostro matrimonio e due adottivi. Rinunciai al lavoro di insegnante di sostegno per dedicarmi all’accoglienza di bambini senza mamma». Chiara e Cecilia, avevano 17 e 13 anni. Simona, 14enne, la bimba adottata con sindrome di Down e cardiopatìa congenita, venuta a mancare nel 2001, mentre Francesco aveva solo quattro anni: era un bimbo focomelico, privo dei quattro arti, e doveva affrontare un’operazione impegnativa. I medici spiegarono a Elena che per il linfoma se non si fosse sottoposta alla “chemioterapia pesante” avrebbe avuto circa sei mesi di autosufficienza e un paio d’anni al massimo di vita.
«Ma anziché pensare a curarmi, portammo Francesco a Modena dove venne operato, e a cinque anni a Bologna dove gli dettero una carrozzina elettronica». A novembre ‘93 ebbe di notte un sogno. «Mi apparve un giovane in abiti sacerdotali, che non conoscevo nel volto, e mi disse: “La forza di guarigione è dentro di te. Quando la troverai potrai aiutare altri bambini”. Elena continuò a dedicarsi ai bambini, ma nel 1995 ebbe un aggravamento. «Prima di entrare in ospedale per la biopsia e altri esami, il 20 settembre vidi un articolo di giornale dedicato al quinto anniversario dell’assassinio di Livatino e dalla foto riconobbi il volto del giovane uomo visto in sogno due anni prima. Lessi della causa di beatificazione e pensai che avrei potuto chiedergli la grazia della mia guarigione». Poi entrò in ospedale dove le venne accertata la malattia al terzo stadio, irreversibile, e le venne di nuovo proposta la “chemioterapia pesante” che dovette sospendere dopo la seconda applicazione per uno shock anafilattico.
Nel 1996, alcuni mesi dopo un pellegrinaggio via mare in Terrasanta con Cecilia, «iniziai a sentirmi meglio, feci nuovi esami all’Istituto dei tumori e quando il 20 settembre il professore li vide, scrisse che non c’era più alcuna evidenza di malattia». Il certificato di remissione clinica e radiologica completa porta la data 20 settembre 1996, vigilia del sesto anniversario della morte di Livatino. «La mia guarigione è stata un segno dell’amore di Dio. Abbiamo adottato il nostro quinto figlio, Andrea, anche lui affetto da sindrome di Down, ha 22 anni, è affettuoso, solare; è la nostra gioia».
«Senza alcun ripensamento, cosciente di avere fatto esclusivamente il mio dovere. Anche se sono sparito per 11 anni cambiando città, stati, continente. Poi ho ricominciato a lavorare sotto nuova identità. Nel Sud Italia. Io sono ormai un uomo del Sud dal 1978, quando la mia carriera commerciale cominciò a Napoli. Vendendo serramenti e porte per aziende del Nord. Come facevo nel settembre 1990 in provincia di Agrigento». Dopo anni di lavoro adesso è tempo di pensione: «Delle letture, della pensione. Da tre anni. I figli sono grandi, hanno la loro vita. Ovviamente anche loro non si chiamano più Nava».
In tutti questi anni, di sacrifici e difficoltà, mai un ripensamento: «Mai il dubbio che denunciando gli assassini del giudice Livatino e cambiando vita avessimo sbagliato. Esattamente il contrario. Tutti convinti che fosse giusto così. E non solo noi. Anche amici e parenti che non abbiamo più potuto frequentare con regolarità, come un tempo mai più tornato» ne è convinto Nava. E se non avesse denunciato? «Pensare di leggere la mattina la notizia in albergo sfogliando un giornale, magari con l’appello dei magistrati alla ricerca di eventuali testimoni, mi avrebbe fatto vomitare. Mi sarei sputato in faccia». Un insegnamento anche per i giovani d’oggi: «Devono combattere soprattutto l’indifferenza. Essere partecipi. Conoscere. Coinvolgere se stessi» conclude il testimone.