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«Di che cosa hanno davvero bisogno i ragazzi oggi?»

La voce della scuola

«Li vedo talmente impauriti al punto di essere confusi e imprudenti: percepiscono intellettualmente il pericolo dato dall’emergenza coronavirus ma non lo capiscono fino in fondo. Io li comprendo: a 18 anni andavo a 160 all’ora sull’A7 e non mi rendevo conto di quello che stavo rischiando». Leonardo Macrobio (nella foto) ha 49 anni, insegna religione alle superiori e sullo stato d’animo complessivo dei “suoi ragazzi” non ha dubbi: «Li vedo spaventati perché non hanno la certezza di un bene, la realtà non gli sembra positiva. Non per niente la parola che più hanno in bocca è “schifo”. Guardandosi attorno incrociano lo sguardo di adulti che non riescono a stare in piedi: questo a un giovane fa saltare i riferimenti. Alcuni di loro hanno qualche persona un po’ più salda su cui far conto, ma questa fortuna non è di tutti. La superficie è tranquilla, ma vedi che sotto sotto non sono sereni: nel loro animo più profondo c’è una sorta di sobbollimento».

Leonardo, dove insegni?
«Sono insegnante di religione all’Istituto Saluzzo-Plana di Alessandria. Da quest’anno passo tante ore al Classico ma anche al linguistico e ho anche alunni di Scienze umane e del Coreutico».

Riesci a essere l’insegnante che avresti voluto essere?
«Sicuramente nel corso dei miei 25 anni di carriera ho fatto molti tentativi (ride). Cerco sempre di tenere il timone puntato verso l’ideale, cercando sempre di essere oggettivo: anche i ragazzi animati dalle migliori ambizioni, sono seduti davanti a te perché devono farlo. Puoi accompagnarli alla vita per i tuoi 60 minuti. Devo riconoscere che anche il loro essere immersi metaforicamente nel “fango” dei loro problemi e della complessa condizione adolescenziale mi provoca ad andare a prenderli dove sono, ad immergermi proprio lì. Questo sforzo negli anni mi è valso anche delle belle amicizie: ho degli ex alunni che sento ancora oggi e a cui sono molto affezionato. La cosa che ho notato è che devi essere molto ricettivo perché ti concedono una, massimo due opportunità. Tornando indietro, onestamente farei trecento volte questo mestiere».

In questo momento con i tuoi alunni che stratagemmi metti in pratica per appassionarli comunque alle materie, pur non riuscendo a vederli in presenza?
«Io sono abituato a usare Keynote e altri programmi per creare le slide da proiettare durante le lezioni: è 15 anni che mi porto tutta la strumentazione da casa, sembro il rappresentante della Folletto (ride). A meno che tu non sia Fedez o la Ferragni (due personaggi molto amati dai giovani e molto presenti sui social network, ndr) è impossibile che gli alunni già normalmente ti seguano per 60 minuti. Per questa situazione inedita data dalla didattica a distanza ho cercato di migliorarmi ancora. Ho preso dagli Youtuber (persone molto seguite sul social network Youtube, ndr) delle tecniche per richiamare loro l’attenzione (cambiare diapositiva e modificare il tono ogni 30 secondi) e ho anche seguito un seminario online con un comico di Zelig che mi ha spiegato come far entrare l’umorismo a scuola. Ho imparato che si tratta di un accorgimento molto utile ma va usato con parsimonia (dalle tre alle cinque volte in un’ora è l’ideale, dicono gli esperti). L’unico modo che funziona sempre e comunque è uno solo».

E quale sarebbe?
«L’attenzione dei ragazzi rimane viva nel momento in cui li inter-essa ovvero nel momento in cui ci sono in mezzo».

Come fate a stare vicino agli alunni disabili o con necessità speciali in questo momento?
«Coinvolgere questi studenti in processi di didattica a distanza è oggettivamente complesso. Io ho avuto un alunno tetraplegico, che nei collegamenti con la scuola stava sempre accanto al suo papà. In classe riuscivamo a tenergli la mano, a distanza non possono essere lasciati soli davanti allo schermo di un pc come si fa con gli altri: in quasi tutti i casi il contatto umano è fondamentale e in questo momento purtroppo ricade tutto sulla famiglia».

Se ci facciamo vedere impauriti, è la fine

 

Secondo te, di che cosa avrebbero bisogno i tuoi alunni, da parte di scuola e genitori?
«Quello che gli è davvero più utile è un adulto saldo: se ti vedono impaurito è la fine. Una “sana” paura del virus va bene perché sprona a essere prudenti e accorti. La fine del mondo per un ragazzo è invece vedere un adulto a cui frana il terreno sotto i piedi. Quando io ho dovuto fare il tampone ho passato una settimana difficile. Temevo un esito infausto per me e per la mia famiglia e ho visto le mie figlie che, di fronte a un adulto in preda alla paura, si sono sperse. Ho due ragazze, di 8 e 15 anni: la più piccola ha fatto dieci volte più della grande la fatica. Sia loro che i miei alunni hanno bisogno di adulti certi su poche grandi cose: osservano come vivo e che atteggiamento ho nei confronti della vita sia che gli spieghi una lezione sia che gli parli di cosa mangerò a cena».

E le “poche grandi certezze” quali sono?
«Posso dirti quelle che ho in questo momento. Per esempio, la forza del sacramento che mi unisce a mia moglie: nella mia famiglia c’è un Altro che ci tiene insieme. Nei giorni di attesa dell’esito del risultato del tampone quello che cercavo di vivere nel quotidiano era riportare alla memoria i fatti che avevo vissuto. Le vicende belle, come il matrimonio con mia moglie, e quelle infinitamente dolorose, come la perdita di mio padre o di mio figlio, hanno avuto tutte un senso, che si è disvelato pian piano, un pezzo alla volta. Quello che sto vivendo ora quindi, anche se non lo comprendo, so che avrà un senso che capirò più avanti. “Tutto concorre al bene di quelli che amano Dio”, come ci ricorda San Paolo».

Come insegnante quali consigli dai ai genitori?
«Dal punto di vista pratico non so dirti se passare un pomeriggio giocando a scacchi aiuti o meno: non ho trovato il gioco definitivo (ride). Quello che ho capito è che questo tempo difficile e di convivenza forzata può essere utilizzato per ri-verificare i rapporti: non è vero che i figli per il fatto che sono sangue del tuo sangue tu genitore li conosci davvero. Cerca i pertugi e le crepe nelle quali puoi verificare questo rapporto. Per questo servirebbe una reciproca comprensione del vocabolario usato».

Facciamo un esempio?
«Partiamo dalle basi: genitori, non si può fare l’interrogatorio di quinto grado sull’uscio di casa. Ai figli le domande vanno fatte dopo la quinta forchettata di lasagne. Ai ragazzi dico che quando i vostri genitori vi chiedono “come è andata oggi?” non vi chiedono che versione di greco hai fatto. Ma vogliono dire “ti voglio bene fino ad arrivare nella tua classe”. Quando il figlio risponde “Bene” e basta sta dicendo: “Non ho zuccheri nel sangue, fammi mangiare e ne parliamo”».

Speciale a cura di Zelia Pastore

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