Intervista a padre Daniele Noè, delegato vescovile per la carità
Domenica 25 giugno si celebra la Giornata per la Carità del Papa, durante la quale, in tutte le diocesi del mondo, verrà raccolto l’Obolo di San Pietro. Grazie alle donazioni degli scorsi anni, il Pontefice ha potuto finanziare la sua missione e realizzare 157 progetti in 67 Paesi: la maggior parte in Africa, in America e in Asia, come è stato pubblicato nell’ultimo rapporto annuale del 2022. In questa occasione abbiamo chiesto a padre Daniele Noè, delegato vescovile per la pastorale della carità e responsabile della mensa dei poveri di Casa San Francesco, di misurare la “temperatura” della carità sul nostro territorio.
Padre Daniele, partiamo dalla mensa dei poveri. Come sta andando?
«Dal 1° giugno ne siamo a tutti gli effetti i gestori, dopo il saluto di padre Roberto, anche se già da novembre dell’anno scorso abbiamo lavorato insieme per il passaggio di consegne. Ogni giorno affrontiamo una realtà sempre più complicata: ci sono persone nuove che vengono a chiedere alimenti e generi di prima necessità».
Quanti vengono da voi a chiedere un pasto?
«Circa 120 persone vengono alla nostra mensa tutte le sere. Ma questo inverno siamo arrivati ad averne 160. Vengono persone di ogni nazionalità: italiani, albanesi, marocchini, nigeriani, ucraini. Quasi tutti hanno una casa, mentre una piccola parte vive alla giornata, di stenti. Sono i più disperati, non hanno nemmeno un tetto sopra la testa».
Cosa hai notato nei primi mesi alla mensa?
«Mi sono reso conto che il pane materiale che noi offriamo è solo una piccola parte dei bisogni di cui queste persone hanno davvero bisogno. Accogliendo e parlando, ci rendiamo conto dei drammi e delle situazioni che ciascuno di loro porta nel cuore e nella vita. Per questo quotidianamente svolgiamo un servizio che non è solo di distribuzione alimentare, ma anche di attenzione alla persona. Che è, in fondo, l’emergenza primaria. In tutto questo, vorrei ringraziare ancora una volta padre Roberto per il servizio che ha svolto precedentemente, e per il suo aiuto nei mesi scorsi. Ma voglio ringraziare anche tutti i volontari, senza i quali non sarebbe possibile far fronte alle necessità dei più bisognosi».
Avete bisogno di volontari?
«Sì, sicuramente. Colgo questa occasione per stimolare la sensibilità di persone che abbiano voglia di contribuire alla nostra opera di volontariato. Il nostro servizio si struttura nel pomeriggio, dalle 14 alle 18, e i volontari si occupano delle preparazioni dei sacchetti da asporto, di riscaldare le vivande e della distribuzione in mensa. Abbiamo davvero bisogno di una mano in più».
Come collaborate con la Caritas diocesana?
«Con Caritas abbiamo incrementato la nostra collaborazione. Ci sosteniamo, per quanto possibile, in modo reciproco. Perché la carità non ha barriere. La maggior parte dei poveri che passa a pranzo da loro, poi alla sera viene da noi. Concretamente, se ci sono alimenti che avanzano, dall’una o dall’altra parte, cerchiamo di “compensarli” e distribuirli».
Il 25 giugno sarà la Giornata del cosiddetto “Obolo di San Pietro”. Come sta la carità in città e in Diocesi?
«Si può migliorare, sicuramente (sorride). Ci sono tante persone che sono attente alle nostre realtà e ci vengono in aiuto. Generalmente i cittadini rispondono bene, sono disponibili ad aiutare i più bisognosi. Lo notiamo a Casa San Francesco: sono in tanti a fare la carità e a mostrare attenzione alla realtà della mensa. E di questo li ringrazio tanto. Ma si può sempre fare di più…».
Pur aiutandoli, con i poveri si fa fatica a stare… perché, secondo te?
«Perché ci scomodano, ci fanno uscire dai nostri schemi, dal nostro io. Dall’egoismo che c’è in ognuno di noi. Quando una persona chiede e ha bisogno qualcosa, noi dovremmo lasciare una parte del nostro tempo e delle nostre risorse per andare incontro agli altri. E questo ci dà fastidio».
Ma è sufficiente fare la carità dando una moneta fuori dalla chiesa?
«No, non basta. Infatti papa Francesco chiede di toccare con le mani il povero. Si fa carità con il contatto umano, donando la propria presenza umana. È difficile, certo. Ma accogliere l’altro non vuol dire solo accoglierlo esteriormente, ma accoglierlo nella nostra vita, nel nostro cuore: fargli spazio. Ed è sempre problematico, perché abbiamo paura che ci rubi tempo, che ci scomodi. Allora, se noi cristiani vogliamo fare la carità in un certo modo, abbiamo bisogno di una continua conversione».
In che cosa consiste questa conversione?
«Posso rispondere per me. Vivere questa conversione significa lasciare operare il Signore nella nostra vita. Gesù dice: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Per questo siamo chiamati a trovare e guardare la presenza di Cristo nell’altro. E per farlo occorre avere un cuore aperto all’azione dello Spirito».
Come si fa ad avere questo cuore aperto?
«Con la preghiera, con l’incontro con Dio».
E questo basta?
«Guarda, tutto parte da un’esperienza concreta nella propria vita. Nel momento in cui facciamo esperienza di Dio, siamo accolti e perdonati da Lui. Così, a nostra volta, siamo chiamati a essere accoglienti e a perdonare».
C’è differenza tra la carità cristiana e la “filantropia laica” di tante persone generose?
«Cambia lo sguardo e la consapevolezza con cui lo fai».
Come si fa a distinguere? Si incontra Dio?
«C’è un bellissimo canto che dice: “Dov’è carità e amore, lì c’è Dio”. Fare il bene porta il bene, Gesù ci ha insegnato questo. Cominciamo a fare il bene, che è un punto di partenza, dando spazio alla grazia dello Spirito che agisce. Poi, da lì, si cresce nella fede».
Torniamo all’Obolo di San Pietro. In questi ultimi anni ci sono stati alcuni scandali: su tutti, quello relativo alle opache operazioni, che hanno visto coinvolto anche il cardinale Angelo Becciu, di compravendita di un immobile di lusso a Londra. Papa Francesco è intervenuto duramente per bloccare un uso disinvolto, e non giustificabile, del denaro proveniente in parte o del tutto dall’Obolo. Tu cosa ne pensi?
«Al di là degli scandali delle gestioni degli ultimi anni, la carità e le donazioni servono sempre per andare incontro al prossimo e alle sue necessità. Noi cerchiamo di fare la nostra parte, e poi ci affidiamo. In ogni caso, il nostro piccolo contributo serve per sentirci Chiesa, non solo locale, ma anche universale: ovvero figli di Dio. E siccome siamo parte del Corpo di Cristo, che è la Chiesa, il nostro piccolo contributo può aiutare l’altra parte del Corpo della Chiesa che è in difficoltà».
Qual è l’augurio che ti senti di fare? Non avere più nessuno in coda fuori dalla mensa?
«No, perché i poveri ci saranno sempre. Gesù dice: “I poveri li avete sempre con voi”. Mi auguro che ci siano sempre più sensibilità e solidarietà per prevenire bisogni che potrebbero emergere. Questo dipende dall’apertura del nostro cuore nei confronti del prossimo. Ricordandoci sempre che quel poco donato con amore, messo nelle mani di Dio, si moltiplica per Sua grazia».
Alessandro Venticinque