A Gaza si continua a morire: parla Anton Asfar di Caritas Jerusalem

VERGOGNA

«Da tre mesi non arrivano rifornimenti. E i bambini soffrono di malnutrizione»

 

A Gaza si continua a morire: di fame, di sete e sotto le bombe. Negli ultimi giorni i media hanno fatto conoscere la storia della dottoressa Alaa al-Najjar e della sua famiglia. La casa del medico palestinese è stata colpita da un attacco aereo israeliano, nella giornata di venerdì, e ucciso nove dei suoi dieci figli. Gli unici a sopravvivere, come confermato dall’ospedale Nasser, sono stati uno dei figli, Adam e il marito della dottoressa. Sotto le macerie, invece, gli altri nove figli: la vittima più grande aveva 12 anni, la più piccola solo 7 mesi.

Intervistato da Vatican News, il Segretario di Stato, cardinal Pietro Parolin, ha dichiarato: «Quello che sta accadendo a Gaza è inaccettabile. Il diritto umanitario internazionale deve valere sempre, e per tutti. Chiediamo che si fermino i bombardamenti e che arrivino gli aiuti necessari per la popolazione: credo che la comunità internazionale debba fare tutto ciò che è possibile per mettere fine a questa tragedia. Allo stesso tempo ribadiamo con forza la richiesta ad Hamas di rilasciare subito tutti gli ostaggi che ancora tiene prigionieri, e di restituire i corpi di quelli che sono stati uccisi dopo il barbaro attacco del 7 ottobre 2023 contro Israele».

Dure anche le parole del cardinal Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana: «Chiediamo il rispetto del diritto internazionale umanitario, l’ingresso di aiuti senza restrizioni, l’apertura di corridoi umanitari e, soprattutto, la promozione di un dialogo che possa realizzare la soluzione “due popoli, due Stati”» ha spiegato, martedì 27 maggio, introducendo il Consiglio permanente della Cei. E poi l’appello per Gaza, rilanciando le parole pronunciate da papa Leone al termine dell’udienza generale di mercoledì scorso: «La Chiesa invoca, annuncia e si mette al servizio della pace. Senza esitazioni, senza soste».

Di seguito riportiamo l’intervista di Daniele Rocchi (AgenSir) ad Anton Asfar, Segretario generale di Caritas Jerusalem.

«La gente vaga tra le macerie come fantasmi affamati». La situazione a Gaza è allo stremo. Anton Asfar, Segretario generale di Caritas Jerusalem, descrive con toni crudi la crisi umanitaria in atto nella Striscia, aggravata dal crollo della tregua e dalla chiusura dei corridoi umanitari. Le sue parole, rilasciate al Sir, sono una denuncia, ma anche una testimonianza di presenza, resilienza e servizio sul campo.

Qual è oggi la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza?

«Dopo il collasso del cessate il fuoco e la chiusura dei corridoi umanitari, dal 2 marzo la situazione si è drammaticamente deteriorata. Da tre mesi non arrivano più rifornimenti adeguati: mancano cibo, acqua potabile, medicine. La popolazione è in continua ricerca di viveri e si è tornati al consumo di cibo in scatola. I bambini soffrono di malnutrizione. Le persone si muovono come fantasmi, affamate. Non ci sono carne fresca, verdure o altri generi alimentari: tutto è finito».

Nei giorni scorsi sono entrati alcuni Tir con gli aiuti. Hanno avuto un impatto reale sulla situazione?

«Solo all’inizio di questa settimana sono stati fatti entrare pochi aiuti. Ma parliamo di quantità irrisorie, come dare tre o quattro caramelle a duecento persone. La popolazione è allo stremo. I nostri operatori ricevono ogni giorno richieste disperate. Ieri, ad esempio, un padre ci ha scritto raccontando di aver venduto tutti i suoi beni per poter comprare qualcosa da mangiare per i suoi due figli piccoli».

Quali sono le urgenze principali per la popolazione?

«Come detto, sono soprattutto cibo fresco, carne, verdura, frutta per i bambini denutriti. Ma anche acqua potabile, tende, kit per l’igiene. Ma soprattutto la dignità, in particolare per le donne. Il meccanismo di ingresso degli aiuti è estremamente lento e le quantità sono del tutto insufficienti. Anche i nostri operatori a Gaza, che sono parte della comunità locale, soffrono la fame mentre cercano aiuti per le loro stesse famiglie».

Come riuscite a garantire l’operatività in un contesto così instabile?

«Riceviamo continuamente ordini di evacuazione, da parte dell’esercito di Israele, che costringono la popolazione a spostarsi da una zona all’altra. Abbiamo dovuto chiudere improvvisamente un nostro presidio medico ad Abu Arif, nella zona di Deir al-Balah, lasciando lì le attrezzature perché era troppo pericoloso. Le abbiamo recuperate solo dopo giorni. Anche il centro medico nel campo di Al-Shati è stato chiuso. Lo avevamo appena riabilitato e riaperto nel campo profughi di Shorti, ma con i nuovi ordini di evacuazione in atto anche lì, abbiamo dovuto sospendere le attività per alcuni giorni».

Si parla spesso della città di Rafah come destinazione forzata per gli sfollati…

«Sembra che l’obiettivo sia concentrare la popolazione in nuovi “hub” a Rafah, che però non offrono nulla di dignitoso. Si cammina per chilometri per un pacco alimentare, senza mezzi di trasporto, con costi insostenibili. È un modo per spingere le persone ad abbandonare Gaza, un giorno, volontariamente. Ma al momento nessuno vuole lasciare la propria terra».

Quali servizi riuscite ancora a offrire?

«Nonostante tutto, Caritas Jerusalem continua a fornire servizi salvavita. Abbiamo dieci presìdi medici attivi, cinque a nord e cinque a sud di Wadi Gaza. Uno di questi è stato chiuso a causa degli ordini di evacuazione, ma i nostri operatori sono determinati a restare al fianco della popolazione. Contiamo su oltre 120 dipendenti, oltre a molti volontari, impegnati a fornire assistenza medica e umanitaria alle fasce più vulnerabili».

E la comunità cristiana di Gaza?

«Vive le stesse sofferenze del resto della popolazione: carenza di cibo e acqua, difficoltà negli spostamenti. Abbiamo tentato di trasferire alcuni nostri operatori dal compound della Sacra Famiglia e da quello ortodosso al centro medico di Al-Shati, ma le strade non sono sicure. La sicurezza del personale è la nostra priorità. Per questo abbiamo dovuto sospendere parzialmente anche quel presidio».

Come reagisce la popolazione, in particolare i cristiani?

«Sono ostinati nel voler restare. Non vogliono vivere una nuova Nakba (letteralmente “catastrofe”, termine con cui la storiografia araba indica l’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948, ndr). Vogliono ricostruire Gaza, prima le loro anime e poi le case. Anche se la guerra dovesse finire, molti di loro ci dicono che non lasceranno la Striscia. Ci sarà bisogno di progetti, di supporto internazionale, ma lo spirito di resilienza è forte. La speranza è che questa tragedia non segni la fine, ma l’inizio di una rinascita».

Check Also

C’è profumo e profumo: noi quale vogliamo? – L’editoriale di Andrea Antonuccio

Care lettrici, cari lettori, apriamo questo numero di Voce con le parole pronunciate sabato scorso …

Sahifa Theme License is not validated, Go to the theme options page to validate the license, You need a single license for each domain name.