Luigi Tenco l’ho conosciuto una notte d’estate circa trent’anni fa. Eravamo il mio amico e io, tra i filari d’uva poco sopra Cassine, seduti a bere una birra e a raccontarci dei sogni che avevamo in testa. A un certo punto io gli chiesi cosa erano quelle luci che si vedevano in fondo alla collina: «Ricaldone» mi fu risposto. «Non lo conosci? È il paesino dove è sepolto Tenco. Non conosci neanche lui?». Ecco la sera in cui ho conosciuto Tenco. Negli anni a venire ho avuto modo di sentirlo diverse volte ma non mi ha mai convinto più di tanto. È strano che un artista così giovane non abbia fatto breccia se non in età matura. L’ho incontrato nuovamente a casa di un altro amico più grande di me. Suonava su un vecchio 33 giri. Piano piano mi ha incuriosito: prima per le melodie e poi con le parole. Ho incominciato a leggere di lui, a sentirlo. Togliendo il naturale fruscio del disco, la sua musica è diventata di colpo attuale. Quanti artisti ha ispirato, quante volte mi è parso di averlo già sentito. Ho visto i club, i musei che gli sono stati intitolati e dedicati e ho avuto come l’impressione che gli artisti di tutta Italia volessero portare avanti la sua idea di musica interrotta troppo presto. Adesso si sentono i nuovi cantanti che violano le sue canzoni riproponendole con arrangiamenti e interpretazioni di ogni genere. La sostanza rimane comunque, perché se il concetto da esprimere è ricco in sé, qualsiasi rivisitazione non potrà far altro che trarne vantaggio. Luigi Tenco ci ha lasciato con una canzone che parla di emigrazione, per certi versi tema attualissimo: l’amore di cui parlava non era quello per una donna, ma quello per la sua terra. L’ha salutata con tono quasi sarcastico ma profondamente dispiaciuto, e poi se ne è andato veramente mettendo fine alla sua giovane vita. Lasciandola in eredità, come un’opera incompiuta.
Andrea Allegra