Gianfranco Favarato, 81 anni, è presidente della Confraternita del Santissimo Sudario che ha sede a Torino. Lo scopo della Confraternita è la diffusione del culto e della devozione alla Sindone. Lo abbiamo intervistato, alla scoperta della storia centenaria di questa istituzione.
Quando è nata la vostra confraternita, e perché?
«La nostra Confraternita è nata il 25 maggio 1598, vent’anni dopo l’arrivo della Sindone da Chambéry a Torino. Proprio per questo particolare anniversario il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, decise di svolgere la “processione degli angeli”. Questa è la quarta Confraternita sulla Sindone: la prima nel 1506 per opera del papa Giulio II, poi nel 1521 a Ciriè e nel 1580 a Roma. Queste confraternite furono da lì a poco sciolte, mentre la nostra vive tuttora».
Di cosa si occupa?
«Da subito si sviluppò un interesse nell’ambito sociale, forse perché allora lo Stato non era in grado di gestire al meglio questo aspetto. In particolare ci si occupava delle fanciulle sole e delle figlie dei militari, per evitare che cadessero in mani poco sicure. Poi, nel 1730, sempre grazie all’appoggio del duca di Savoia, prese vita “l’ospedale dei Pazzerelli”. Costruito con il denaro dei confratelli, questa struttura è stata l’anticamera dei manicomi prima gestita dai volontari e poi dallo Stato».
Veniamo a oggi…
«Sempre nel campo sociale, nel 1995 la Confraternita ha dato vita a “Casa Bordino”. Si tratta di un centro di ricerca e intervento sul disagio psichico, dove si svolgono attività per riportare alla normalità queste persone. Poi passiamo alla creazione del museo della Sindone allestito nella cripta della chiesa del SS. Sudario, l’unico interamente dedicato al Sacro Telo e gestito solo da volontari. Infine, parliamo anche del Centro internazionale di studi sulla Sindone, che coordina e promuove gli studi sul Sudario».
La Sindone come è arrivata a Torino? La tradizione coinvolge anche San Carlo Borromeo…
«Nel 1578 Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, organizzò un pellegrinaggio fino a Chambéry, dov’era custodita la Sindone, per ringraziare di aver salvato la sua città da un’epidemia di peste. Emanuele Filiberto, duca di Savoia, volle facilitare il pellegrinaggio trasferendo il Sacro Telo a Torino. E da allora non si è più spostato».
La devozione popolare con il passare dei secoli è cambiata?
«Diciamo che per quello che vediamo dalle ostensioni l’interesse è sempre molto alto. Basta tirare fuori il Sudario e si crea subito una grande aspettativa».
Ad agosto centinaia di giovani hanno contemplato il Sacro Telo in una collocazione particolare.
«Quest’estate i ragazzi di Piemonte e Valle d’Aosta sono arrivati in pellegrinaggio a Torino per vedere, in un modo molto particolare, la Sindone. Normalmente viene esposta in orizzontale sull’altare maggiore del Duomo. Ma per farla vedere ai ragazzi si è pensato, non solo di toglierla dalla teca, ma di farla vedere dall’alto: è stata tolta dal suo guscio d’acciaio ed è stata fatta una piccola sopraelevata, in modo che i ragazzi la vedessero in rialzo di un metro. È stato molto bello poterla osservare da un’altra prospettiva: questo ha permesso a tutti di gustarla in maniera differente».
Come si è evoluta l’ostensione nel tempo?
«Parliamo di esibizione della Sindone, cioè qualcosa che veniva esposta per le grandi feste e tradizioni della famiglia Savoia. Dal 1987 è diventata di proprietà del Papa, permettendo così ostensioni più “ordinate”. Oggi l’ostensione avviene ogni Giubileo, ma c’è sempre qualche occasione per farla vedere perché rappresenta un risveglio enorme di spiritualità. Adesso dovremmo aspettare fino al 2025».
Per lei che cos’è la Sindone?
«La Sindone è un qualcosa che lascia perplessi, ogni volta che resto a guardarla ho delle grosse emozioni. Mi piace definirla come Giovanni Paolo II: “Una grossa provocazione”. Dico solo che lì sopra è impresso tutto ciò che si legge sul Vangelo nella sofferenza di Cristo sul Calvario. Per questo, da credente, dico che questo telo ha avvolto Cristo. Dietro a questo telo ci sono secoli di mistero e di dubbi, ma per me la Sindone rappresenta qualcosa che mi identifica».
Alessandro Venticinque