ALLA SCOPERTA DI “BETEL”
Intervista a Francesco Bombonato, presidente dell’associazione
Francesco Bombonato, classe 1956, insegnante del Cnos-Fap, Centro Nazionale opere salesiane – Formazione aggiornamento professionale, in pensione, sposato da 41 anni e con un figlio, è impegnato da molti anni con Betel, di cui ricopre la carica di presidente. Betel è un’associazione di volontariato penitenziario, che svolge il proprio servizio sia all’interno degli istituti di pena di Alessandria (Don Soria e San Michele), sia all’esterno con ospitalità di detenuti in permesso premio, familiari in visita, persone agli arresti domiciliari o scarcerate. Lo intervistiamo in occasione della modifica dello statuto, passaggio “obbligato” dopo il Decreto legislativo n. 117 del 3 luglio 2017 che ha ridisegnato il Terzo settore in Italia.
Francesco, Betel non è più una onlus?
«In realtà abbiamo modificato alcune parti dello statuto adattandolo alle nuove disposizioni. Ora siamo una “Odv”: Organizzazione di volontariato. E abbiamo anche un nuovo logo».
Ma cambiano anche i vostri scopi e il vostro modo di operare in carcere?
«Assolutamente no. Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: colloqui, guardaroba per la distribuzione di indumenti e materiale per l’igiene personale, sostegno agli indigenti, corso di musica, gruppo di preghiera e diversi servizi, tra cui l’ottico e lo sportello di Segretariato sociale a seguito del protocollo operativo tra Patronato Acli, Istituti penitenziari “Cantiello e Gaeta” e Betel, sottoscritto nel 2017. E con alcuni detenuti è nato un progetto di adozioni a distanza, in cui i detenuti stessi si tassano mensilmente per sostenere quattro bimbi in Kenya. E poi vorrei sottolineare la collaborazione con il Polo Universitario operante a San Michele, nelle relazioni tra segreteria dell’Università e detenuto studente».
Di che si tratta?
«Il carcere di San Michele è polo universitario. I detenuti meritevoli, e che ne fanno richiesta, possono frequentare alcune facoltà dell’Università del Piemonte Orientale. La parte culturale è molto importante per il recupero personale e sociale di chi ha commesso reati, anche gravi. Più si fanno attività formative durante la detenzione e meno si incorre nella recidività. Per capirci, con la formazione e lo studio si passa dal 70% di “rientro” in carcere a fine pena, al 30%».
Come vi sostenete?
«La Betel non ha spese di struttura: la nostra sede, in via Vochieri 80 ad Alessandria, è messa a disposizione dal Csvaa (Centro Servizi Volontariato Asti e Alessandria, ndr), che ringraziamo per questo; non ci sono persone stipendiate o collaboratori in qualche modo retribuiti. Siamo tutti esclusivamente volontari a costo zero».
Ma allora da dove traete le risorse per fare quello che fate?
«Noi innanzitutto non abbiamo vergogna a chiedere, perché l’obiettivo ci sembra nobile ed evangelico: visitare i carcerati è un’opera di misericordia corporale. Ma non solo. Riveste anche una funzione sociale, perché si entra in sintonia con persone che sono in un percorso di detenzione e di recupero nello stesso tempo. Devo confessare che spesso anche noi volontari “mettiamo del nostro”, soprattutto quando vediamo situazioni particolarmente gravi, o disperate».
Ma questo non è compito dello Stato?
«Certamente, ma i bisogni sono tantissimi, le persone dedicate, pur molto impegnate e coinvolte, non sono numericamente sufficienti. Il volontario è una forza aggiuntiva all’opera complessiva di rieducazione. In più, è una figura senza ruoli istituzionali: non è un giudice, un avvocato, un agente e così via, e quindi ha la possibilità di instaurare un rapporto più diretto e non “condizionato” con il detenuto, considerato soprattutto come persona. Con i suoi bisogni, le sue angosce e le sue difficoltà».
Torniamo alle risorse…
«Da diversi anni dalla Diocesi riceviamo un fondamentale contributo economico, che deriva dall’8xmille. Questo contributo, di cui siamo molto grati, ci consente di intervenire in grande misura sulle necessità concrete e quotidiane dei carcerati e delle loro famiglie, che vivono evidentemente delle situazioni di disagio, anche economico. Il contributo ci ha permesso di continuare il progetto “Casa Betel”, due bilocali in affitto destinati all’accoglienza temporanea di detenuti, ex detenuti e loro familiari. Ma cerchiamo anche di venire incontro alle esigenze che per noi sono scontate: penso, per esempio, al caffè, al tabacco o alla bomboletta del gas per il fornelletto. Sembrano banalità, ma ci sono persone recluse che non hanno nulla e rischiano di peggiorare la loro condizione fino ad arrivare a compiere atti di autolesionismo».
Immagino che quando parli di Betel alcuni ti dicano che in fondo non vale la pena aiutare persone che hanno commesso reati, a volte anche gravi: in fondo, ricevono quello che si meritano… Tu cosa rispondi?
«La risposta è complessa e allo stesso tempo semplice: sono persone, e noi vogliamo incontrarle vedendole così, come persone. Capisco che non sia facile o naturale: è un percorso impegnativo che deve portare a un rapporto tra me e l’altro che supera i bisogni immediati e diventa umanità. E questa umanità non è un colpo di spugna sulle responsabilità, a volte pesanti, di chi è in carcere».
E cos’è, allora?
«Può essere l’inizio di una possibilità di riconciliazione, con se stessi e con le persone danneggiate dall’atto criminoso. Senza un rapporto perderemmo anche questa speranza e il mondo sarebbe molto più brutto. È proprio per questo desiderio di riconciliazione, che a volte è l’inizio di una conversione personale, che la figura del sacerdote all’interno del carcere è indispensabile. Perché lui può dispensare quel perdono sacramentale che io, da semplice laico, evidentemente non posso dare».
Andrea Antonuccio