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Moti insurrezionali del marzo 1821: il Tricolore sventola in Cittadella

“Alessandria racconta” di Mauro Remotti

La scintilla dei moti insurrezionali del 1821, volti all’introduzione di una monarchia costituzionale e alla guerra contro l’Austria, scoppia ad Alessandria. Infatti, nella notte del 9 marzo, Guglielmo Ansaldi, colonnello del reggimento Savoia, e il capitano Isidoro Palma di Borgofranco entrano nella Cittadella e convincono i soldati della brigata Genova ad ammutinarsi. Ai rivoltosi si aggiungono le unità di cavalleria dei Dragoni del re, provenienti dalla Gambarina Nuova (oggi piazza Vittorio Veneto), guidati dal capitano Luigi Baronis, insieme a una sessantina di civili armati.

All’alba del 10 marzo, tre (o quattro) colpi di cannoni annunciano il felice esito dell’impresa, e i patrioti issano sui bastioni della fortezza una bandiera tricolore. Un episodio fondamentale del Risorgimento italiano che il grande poeta Giousè Carducci ha così celebrato nelle rime di Piemonte: «Innanzi a tutti, o nobile Piemonte, quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria diè a l’aure primo il tricolor, Santorre di Santarosa».

Il vessillo non è ancora il tricolore tradizionale, «ma già ai colori della Carboneria (rosso, azzurro e nero) – quei colori della bandiera che fu sventolata nella rivoluzione democratica napoletana del 1799 – si erano sostituiti nuovi colori: e per la prima volta era comparso, al posto del nero, il verde» (Giovanni Spadolini, discorso in Cittadella del 10 marzo 1991). Tuttavia, non vi è accordo sui colori della bandiera. Il conte Santorre di Santarosa, uno dei principali protagonisti dei moti piemontesi, la ricorda rossa, verde e blu. Lo storico francese Alphonse de Beauchamp la descrive, invece, nera, rossa e blu. In ogni caso, lo studioso Giulio Massobrio fa notare che: «Il tricolore alessandrino non era quello, verde, bianco e rosso, che nel 1848 fu adottato dal Regno di Sardegna e che si richiamava idealmente alla bandiera della Repubblica Cisalpina del 1796».

La sorte dei cospiratori, i quali s’illudono di poter contare sull’appoggio del principe Carlo Alberto, è però segnata. Nel volumetto Le lancette del Risorgimento, Piercarlo Fabbio mette in risalto il ruolo del nuovo sovrano sabaudo Carlo Felice, subentrato al fratello Vittorio Emanuele I, «per niente convinto della piega degli eventi, tanto meno della Monarchia Costituzionale. Il re si rivolge all’Austria e revoca tutte le guarentigie ai rivoluzionari. Alleato all’Austria, ingaggia battaglia nei pressi di Novara, ove i Federati, pur spalleggiati da alcuni reparti dell’esercito, vengono sconfitti». L’11 aprile dello stesso anno le truppe austriache rioccupano la Cittadella e mettono sotto processo gli artefici della sommossa. Per evitare la condanna a morte, molti cospiratori, tra i quali Giovanni Appiani, Giovanni Dossena e Urbano Rattazzi (zio del futuro presidente del consiglio del Regno d’Italia), intraprendono la via dell’esilio.

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