Intervista a Fabrizio Peronaci, giornalista romano del Corriere della Sera
Di questo abbiamo parlato con il giornalista romano Fabrizio Peronaci (nella foto di copertina), firma del Corriere della Sera. Nell’intervista, dopo aver inquadrato storicamente quel 13 maggio 1981, Peronaci approfondisce gli altri casi “collegati” all’attentato. Vicende che hanno gettato sul Vaticano un’ombra di omertà, ancora oggi da decifrare.
L’ATTENTATO
Peronaci, partiamo dall’evento detonatore: mercoledì 13 maggio 1981, piazza San Pietro, attentato a papa Wojtyla.
«È una data storica del ‘900, un fatto di cronaca gravissimo che incide sulla storia e sugli equilibri geopolitici dell’epoca, in maniera irreversibile. Dal 13 maggio cambia il verso della Guerra fredda, portando alla vittoria l’Occidente. Quando il terrorista turco Ali Agca (nella foto in basso, ndr) spara contro il Pontefice, l’Ovest vince contro l’Est. E da lì partono i dubbi: questo rimane tutt’oggi un “cold case”, un giallo irrisolto. L’unica cosa che sappiamo con certezza è l’esecutore: quello che manca, nonostante le inchieste nel corso dei decenni, è il mandante. Abbiamo chi spara, che ha raccontato una marea di menzogne, con in mezzo delle verità per depistare e coprire il mandante, su cui sono state fatte diverse ipotesi: che andasse cercato a Est, al Cremlino, nell’allora Unione Sovietica; oppure in ambienti torbidi occidentali, o dentro le “sacre stanze” del Vaticano che volevano ostacolare il pontificato di Giovanni Paolo II».
E poi c’è la figura di Ali Agca.
«Il dubbio fortissimo che ha aleggiato nell’inchiesta è che vi sia stata qualche complicità nell’azione di Agca, anche in ambienti ecclesiastici. Da chi ricevette aiuto per arrivare lì? Dove ha alloggiato a Roma e come è arrivato in San Pietro, una piazza presidiata al centimetro? E poi, perché tre giorni prima dell’attentato sempre il turco è vicino al Papa in una parrocchia della periferia romana?».
Anche un anno dopo, il 12 maggio 1982, c’è una seconda aggressione. Wojtyla viene ferito da un prete spagnolo ultraconservatore, durante la visita a Fatima. Di questo fatto, però, non si è parlato tanto…
«Sì, è vero, non se n’è parlato tanto. Si tratta di un avvenimento circoscrivibile a quell’episodio. Quello del 1982 è un altro segno che esprime quanto il pontificato di Woytila sia intrecciato ai segreti di Fatima. Infatti, non è un caso che il turco abbia colpito nell’anniversario dell’apparizione ai tre pastorelli portoghesi. L’impressione è che sia stato messo nel mirino il Papa che faceva più paura, un Papa dell’Est che il regime comunista lo conosce bene e sa come combatterlo. Nel mio libro “Il crimine del secolo” esamino tutte le piste, in particolare quella “rossa” seguita dal giudice Ilario Martella. Emergono chiavi di lettura interessanti sull’attentato, sulla natura del successivo sequestro di Emanuela Orlandi e sulla sparizione e morte di altri giovani».
EMANUELA ORLANDI
Arriviamo al secondo “detonatore”: il 22 giugno 1983 scompare la 15enne Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Prefettura della Casa pontificia.
«Emanuela diventa una delle figure più famose della cronaca nera dell’epoca. Lei è vittima di un tranello: dopo la lezione di musica in piazza Sant’Apollinare, telefona a casa dicendo di essere stata ingaggiata per vendere prodotti di una certa ditta di cosmetici. Sulle prime tutto sembra far pensare a un allontanamento volontario. Ma lei, giovane cittadina vaticana, viene scelta per via dell’incarico del padre. Poco dopo si saprà che altre ragazze erano state pedinate, prima di lei, anche loro figlie di personaggi con un ruolo in Vaticano. Si è trattato di un ricatto orchestrato in maniera abilissima, mascherato come un allontanamento da casa. Questo mi sembra un dato evidente, ma ancora oggi alcune tesi parlano di festini nella Santa Sede o di voglie di un monsignore: no, tutti gli elementi portano a indicare Emanuela come merce di scambio. E lo si capisce quando, 11 giorni più tardi, il Papa lancia un appello pubblico: se si trattasse di una vicenda sessuale, il Pontefice non ne avrebbe mai parlato in un Angelus. Ma si vede chiaramente che Wojtyla è a conoscenza di tutte le verità, sa che dietro c’è un ricatto ed è costretto ad accettare. Il problema è capire la natura e l’obiettivo di questi ricatti».
A quali ricatti si riferisce?
«Nel caso di Emanuela è evidente che ci sia una ragione di Stato. Da un lato, in ambienti vaticani si vuole coprire quanto avvenuto per non “mettere in cattiva luce” la Chiesa, dall’altro ci sono tutti i ricatti contro il Papa: politici, per fermare le sue scelte fortemente anticomuniste, a partire dal finanziamento a “Solidarność”, sindacato cattolico polacco guidato da Lech Walesa; economici, legati alla gestione delle casse vaticane, in particolare della Banca vaticana dello Ior, l’Istituto per le opere di religione, travolto dallo scandalo del Banco ambrosiano (fallito nel 1982, ndr)».
In mezzo a tutti questi dubbi, c’è un punto fermo?
«Questa storia si può capire solo se agiamo per sottrazione, togliendo alcuni pezzi e mettendo i tasselli giusti sul tavolo. Elemento determinante, secondo me, è la telefonata a casa. Emanuela dice che è stata contattata dall’azienda Avon. E una fonte mi ha fatto giungere a una ipotesi che nessuno aveva ancora notato e scritto: uno degli enti ecclesiastici attivi nell’Obolo della Chiesa era la società Nova, che utilizzava parte di questo denaro in Polonia, a sostegno della lotta al comunismo».
Un messaggio in codice, quindi?
«Esatto. Nova, ovvero Avon al contrario. Secondo la mia tesi, si trattava di un messaggio in codice destinato alle controparti del sequestro. Chi aveva organizzato questa operazione era a conoscenza del flusso di denaro gestito dalla fondazione Nova. Un giro che aveva a che fare con ambienti di malavita, con la mafia».
SILENZIO E MALAVITA
La malavita che ruolo ha in questa vicenda?
«A Roma, in quegli anni, non si toccava foglia senza la copertura della banda della Magliana. Alcuni passaggi della gestione di Emanuela, ma anche di altri ragazzi scomparsi, hanno visto la partecipazione della criminalità organizzata. La malavita è stata in Vaticano, non è una notizia. Il capo della banda, Enrico De Pedis detto Renatino, era un assiduo frequentatore delle sacre stanze. Tanto da venire seppellito nella Basilica di Sant’Apollinare».
Oggi proseguono ancora questi “rapporti”?
«Sarei molto più cauto, ci sono stati interventi notevolissimi di moralizzazione, accompagnati da una normativa seria e rigorosa contro il riciclaggio e la poca trasparenza. Durante il loro pontificato, Ratzinger e Bergoglio hanno chiesto un cambio di passo per allontanare l’ombra di quella ragione di Stato».
Perché questo silenzio del Vaticano?
«È una reticenza che sa anche di imbarazzo. Perché parlare di questo caso vuol dire far affiorare dinamiche e fatti che suscitano imbarazzo. In particolare, la gestione delle casse vaticane affidata a monsignor Marcinkus, (presidente dello Ior dal 1971 al 1989, ndr) da tutti considerato spregiudicato, con strani rapporti con la massoneria e diversi processi a suo carico. A un certo punto fu costretto ad andarsene, trasferito come viceparroco in un piccolo paese negli Stati Uniti. Questo era uno dei “modi” della Chiesa per liberarsi dei fatti scomodi: allontanarli, per nascondere le proprie responsabilità. Ci sono delle verità inconfessabili, con passaggi oscuri, che durano ancora oggi. Qualcuno se ne sta nell’ombra, e appena sente un pezzo di verità venire a galla alimenta le attività “diversive”. Il mio libro “Il crimine del secolo” contiene moltissime informazioni, sono stato anche convocato dalla Procura di Roma per una serie di chiarimenti. Soprattutto in merito all’uomo che ha consegnato il flauto di Emanuela. Ne parlo anche nel mio “Il ganglio”, uscito nel 2014».
Parla di Marco Accetti?
«Sì, un personaggio ambiguo che arriva in questa storia nel 2013, quando alla trasmissione “Chi l’ha visto?” consegna il flauto di Emanuela. Subito dopo vengono mosse una serie di accuse nei suoi confronti. Quando si accorge di essere in mezzo a una sorta di manipolazione, mi contatta e lo incontro. Mi racconta vicende che confermano la sua presenza sul luogo del rapimento. La Procura allora apre un’inchiesta per sequestro di persona e occultamento dei due cadaveri di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori (un’altra ragazza coinvolta nella vicenda, ndr). Accetti, all’epoca 27enne, è stato l’unico di cui abbiamo nome, cognome e volto in questa vicenda, ed è disponibile a parlarne. Non ha mai detto che le ragazze sono morte, perché sarebbe stato accusato di omicidio. Subito dopo le sue dichiarazioni io pubblico il mio libro, ma la magistratura preferisce non interrogarlo e decide di non processarlo».
GLI ALTRI CASI COLLEGATI
Accetti è protagonista anche in uno degli altri casi legati alla vicenda Orlandi.
«Il super testimone è coinvolto con la morte di Jose Garramon, 12 anni, figlio di un diplomatico uruguaiano a Roma, che nel dicembre del 1983, nella pineta di Castel Porziano, viene travolto e ucciso proprio da Accetti, che si autoaccuserà dell’azione e sconterà un anno di carcere. Ma non solo. Nel fascicolo di Emanuela, i magistrati inseriscono anche il nome di Mirella Gregori, 15enne, scomparsa 46 giorni prima. Non a caso un suo vicino di casa lavorava nella Gendarmeria del Vaticano: verrà indagato e poi prosciolto, e infine premiato con la cittadinanza vaticana. Di seguito, emerge il caso di Paola Diener, 33 anni, morta fulminata nella vasca da bagno di casa sua in via Gregorio VII, il 5 ottobre 1983. La ragazza, che inizialmente sembrava vittima di un incidente, viene citata dai rapitori in un messaggio recapitato alla famiglia Orlandi. Era figlia di un dipendente vaticano che lavorava nell’archivio segreto. Su di lei non si è fatto nulla. Così come per Katy Skerl, 16enne strangolata a Grottaferrata nel gennaio 1984. Lei era in classe con la figlia di un funzionario dell’ambasciata bulgara a Roma, uno dei tre accusati dell’attentato di Wojtyla, oltre ad Agca. Katy è stata trovata morta, nessuno ha saputo mai il perché. L’ultima è Alessia Rosati, addirittura 11 anni dopo, nel 1994. La 21enne, sparita da Montesacro, era vicina al mondo dell’estrema sinistra. In questo caso ci sono delle somiglianze con la scomparsa di Emanuela: una lettera ritrovata piena di messaggi in codice, con dettagli che sembrano avvicinare questa storia alla massoneria e ai servizi segreti del Sisde. Dall’evento primario, l’attentato al Papa, siamo arrivati agli effetti collaterali, con intorno dubbi e misteri».
Arriveremo mai alla verità?
«Dal momento in cui tutti i tasselli vengono posti davanti all’opinione pubblica, è impossibile fare marcia indietro. Quando le persone interessate saranno morte, forse una parte di verità verrà a galla. Quanto alle responsabilità individuali sarà difficile perseguirle, per il lasso di tempo trascorso. Purtroppo vince chi ha organizzato la catena di depistaggi, da allora fino a oggi. La famiglia Orlandi e le altre ci hanno provato, commettendo anche degli errori, diventando protagoniste di un sistema mediatico non sempre lineare e coerente. Non si può addossare la colpa a loro, ma l’eccesso di “mediaticità” dei familiari ha creato un appiattimento: tutte le piste sono uguali, tutto diventa una poltiglia e non si capisce più niente».
IL SUO RICORDO
Cosa si ricorda della scomparsa di Emanuela?
«Ho un ricordo preciso. Ero iscritto al primo anno di Scienze politiche. Avevo 18 anni, Emanuela tre meno di me. Abitavo all’Eur, e per andare in università prendevo la metropolitana. Ricordo lo sgomento nel vedere quei manifesti, alla metro di Termini. Quella foto ha avuto un valore simbolico incredibile, anche per i dettagli, come la fascetta per i capelli, che resero la giovane identificabile con facilità. La storia di Emanuela non avrebbe coinvolto così tanto l’opinione pubblica se la famiglia non avesse subito appeso quei manifesti. Ecco perché, dopo più di 40 anni, io e tanti altri ci ricordiamo di quella ragazza con la fascetta in testa».
Cosa significa per lei questa storia?
«Mi dà soddisfazione la solidarietà di tanti lettori che si aspettano dal giornalismo questo impegno. Nella vita quotidiana ho spesso avuto una sensazione costante di allerta, mi sono sentito un po’ controllato. Non è gradevole, anche semplicemente essere “osservato” attraverso i miei tabulati telefonici. Ma sono andato sempre avanti, onorando il patto con i miei lettori e informando con libertà. Tra poco uscirà anche una serie su Netflix, in cui parlerò proprio dell’attentato al Papa e di tutto ciò che ne è seguito. L’abbiamo girata tre anni fa: è un lavoro molto bello, che dice tanto di questa storia».
Un giovane dell’oratorio o una catechista di un piccolo paese, di fronte a vicende come queste, come possono avere ancora fiducia nella Chiesa e nel Vaticano?
«Devono continuare ad averla, assolutamente. Perché la stragrande maggioranza delle persone che operano nella Chiesa fa del bene. Ma è mancato il coraggio di prendere le distanze da certi avvenimenti, si è pensato che denunciando i fatti torbidi l’immagine della Chiesa sarebbe stata deturpata. Ma il silenzio è ancora più distruttivo… Sbagliare è umano, anche per chi indossa la tonaca. A un giovane o a una catechista, dico di continuare ad avere fede. I valori su cui vive la Chiesa sono tangibili, nonostante gli errori, troppo spesso seguiti da reticenze e coperture. E proprio per questo occorre imparare a coltivare il dubbio e il coraggio di mettersi contro certe logiche e dinamiche che non vanno bene. Certe logiche e dinamiche opache, appunto, che non hanno niente a che vedere con il vero volto della Chiesa».
L’autore e i suoi libri
Fabrizio Peronaci, laureato in Scienze politiche e giornalista professionista, lavora dal 1992 al Corriere della Sera, nella sede di Roma, dove è caposervizio e si occupa di inchieste e multimedialità. Ha seguito, prima da cronista di nera e poi da responsabile del settore, i principali gialli accaduti nella Capitale. Tra le sue pubblicazioni: “Mia sorella Emanuela” (con Pietro Orlandi, 2011), “Il Ganglio” (2014) e “Il crimine del secolo” (2021). Inoltre, il giornalista romano ha creato un gruppo Facebook “Giornalismo investigativo by Fabrizio Peronaci”, in cui aggiorna i lettori sull’evoluzione dei casi.
Alessandro Venticinque
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