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Un pellegrinaggio nuovo perché tutti si sentano a casa

A Lourdes insieme con l’Oftal: parla il dottor Luigi Aragni

Luigi Aragni (nella foto), per tutti “Gigi”, 65 anni è medico di medicina generale a Valenza, ma per l’imminente pellegrinaggio diocesano a Lourdes insieme con l’Oftal ricopre il ruolo di “responsabile tecnico”. Lo abbiamo intervistato per saperne di più.

Gigi, qual è il tuo servizio?

«Il responsabile tecnico si occupa di tutti gli aspetti organizzativi del pellegrinaggio, ne sovraintende tutto lo svolgimento e la preparazione: dall’organizzazione, che inizia mesi prima della partenza, all’individuazione dei responsabili dei diversi servizi, fino ai dettagli meno visibili. Tutto questo in collaborazione con la presidenza della sezione diocesana dell’Oftal. Possiamo dire che è un po’ il direttore di un’orchestra in cui ciascuno fa del proprio meglio per servire. Devo dire che, nonostante la mole di lavoro, sono tranquillo perché con me ho persone di lunga esperienza: questo permette di essere interscambiabili e rispondere alle diverse problematiche e imprevisti che potremmo incontrare».

Tu perché lo fai?

«In tutti questi anni ho ricoperto ruoli “da medico”. Poi, l’anno scorso Andrea (Serra, ndr), il nostro presidente, mi ha chiesto di ricoprire questo ruolo. Ho detto di sì con un po’ di timore, ma ho avuto la conferma che, quando si va a Lourdes, si fa quello che serve fare. La svolta è stata prendere coscienza che se qualcuno me lo aveva chiesto era perché mi aveva reputato capace di farlo, e che Qualcuno mi avrebbe dato ciò che mi mancava».

Un compito non semplice, quindi…

«Il pellegrinaggio deve essere un luogo di tranquillità e di serenità, in un clima di grande famiglia: questo è il nostro compito come Oftal. Un luogo in cui tutti si possano sentire accolti, specialmente se appena arrivati. E questo passa dal nostro sorriso, dalla nostra disponibilità: a Lourdes lo impariamo, la sfida è portare questo nella vita di tutti i giorni».

Negli ultimi anni il pellegrinaggio è cambiato, rispetto a una volta. Ci racconti come è strutturato?

«Beh, il cambiamento si nota soprattutto in due aspetti. Il primo è il viaggio: fino al 2019 andavamo in treno, e pochi viaggiavano in aereo. Purtroppo con il treno, negli ultimi anni, siamo tornati “indietro”, raggiungendo tempi di percorrenza su rotaia vicini alle 22-24 ore, a causa di motivi tecnici delle ferrovie francesi. Complice anche il Covid e la riduzione dei numeri, dal 2021 abbiamo iniziato a usare il pullman e abbiamo potenziato l’aereo: l’anno scorso era la prima prova, ma quest’anno abbiamo dei numeri considerevoli».

Quali?

«Saremo quasi 200! In 100 partiremo con tre pullman: due attrezzati e uno tradizionale da 50 posti. I primi due sono configurati con 28 posti ciascuno, per accogliere le persone ammalate, con esigenze particolari, in sedili appositi (comodissimi!). Insieme con loro viaggia anche il personale volontario per aiutarli e accompagnarli. Sul terzo, invece, viaggeranno principalmente i pellegrini e i ragazzi della Green Car, ma non mancherà anche il personale. In aereo, invece, un altro centinaio di persone, tra cui anche alcune ammalate, accompagnate dai volontari dell’Oftal».

E l’altro cambiamento qual è?

«L’altro non è un cambiamento tecnico, ma una novità che stiamo inserendo via via, perché anche chi partecipa al pellegrinaggio, in questi anni, è cambiato. Ma questo non riguarda solo noi alessandrini ed è accaduto in tutte le sezioni Oftal e delle altre associazioni di pellegrinaggio: se ci fate caso, a Lourdes, non ci sono più grandi processioni di persone ammalate in carrozzina o in barella, ma tanti, tanti pellegrini. Questo anche grazie a una evoluzione medico-scientifica che permette una migliore qualità di vita anche a persone con una prognosi molto grave. Basti pensare a chi sta combattendo contro un tumore: quante persone accanto a noi portano un peso che non vediamo, che nemmeno immaginiamo! Così abbiamo pensato di cambiare paradigma; fino a ieri il pellegrinaggio era suddiviso in tre grandi categorie: ammalati, personale e pellegrini. I secondi al servizio dei primi, 24 ore su 24. Mentre i pellegrini, ahimè, rischiavano di venir relegati al ruolo di “spettatori”. Da quest’anno la rinnovata attenzione ai pellegrini passa da alcuni volontari del personale che si dedicheranno ad animarli e accompagnarli, perché anche nei gesti più semplici passi il messaggio di Lourdes».

E come pensate di fare?

«Questo si vedrà fin dalla partenza per le celebrazioni di ogni giorno: partiremo e rientreremo tutti insieme, pellegrini e ammalati. Cercheremo di sottolineare tre domande-chiave in ogni momento: perché veniamo a Lourdes? Perché ci torniamo? Cosa ci portiamo a casa da questa esperienza? Queste tre domande aiutano a vivere al meglio ogni momento del pellegrinaggio, per tutti. Anche noi volontari più “navigati” rischiamo spesso di entrare in un automatismo che ci fa perdere di vista il vero significato di questa esperienza. Il rischio è un servizio che diventa una mera opera di pietismo, una sorta di “stacanovismo del bene”. A noi il compito di far passare il messaggio di Lourdes a tutti, perché ancora oggi ha ancora molto da dire. Ma questa cosa nasce dai giovani…».

Cioè?

«È la stessa cosa che in questi anni abbiamo fatto con i giovani: fino a vent’anni fa un ragazzo di 12-13 anni o stava coi genitori o era catapultato nel servizio, quasi come un adulto. Nacque allora la “Green Car”, una proposta perché anche i ragazzi potessero vivere al meglio l’esperienza del pellegrinaggio, scoprendone il messaggio e “assaggiando” il servizio agli ammalati. Ora tocca ai pellegrini più adulti, sempre con la libertà di aderire da parte di ciascuno di loro. Per esempio, per l’ultima sera stiamo mettendo in piedi un momento di festa che coinvolga tutti, non solo gli ammalati come negli anni scorsi. Alla fine siamo in famiglia, no?».

Gigi, qual è il tuo rapporto con Lourdes?

«Il mio primo viaggio a Lourdes risale al 1990. Da lì ho iniziato coi pellegrinaggi, dopo sono arrivate anche le settimane di Stage, in servizio per conto del Santuario. Inizialmente, da medico, credi di poter andare là e “curare” il mondo; poi capisci che quello che viene “curato” sei tu, anche dagli ammalati. Provo a spiegarlo a parole, ma è una cosa che va vissuta. Ed è questo che ti “manca” quando sei casa: è impressionante che chi agli occhi del mondo non ha nulla possa dare così tanto»

Hai un aneddoto che vuoi condividere con i lettori di Voce?

«Mi ricorderò sempre quando, un giorno di servizio alle piscine, arrivò un signore in carrozzina che non poteva parlare, ma scriveva con un apposito ausilio. Dapprima era diffidente, scontroso, probabilmente per la paura di un’esperienza nuova. Dialogammo un po’ e scoprii che entrambi ci chiamavamo Luigi e avevamo tutti e due 40 anni. Era in carrozzina per un incidente in moto».

E poi?

«Fece il bagno nell’acqua che sgorga dalla Grotta. Prima di andare via mi scrisse: “Caro Luigi, abbiamo lo stesso nome, la stessa età. Sono contento che quello che è successo a me non è successo a te”. E lì cosa fai? Ti verrebbe da abbracciarlo, in silenzio. Capisci sempre di più che quel poco che hai da dare non è tuo. E ricevi molto più di quanto meriti».

Giorgio Ferrazzi

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