Il resoconto dell’incontro con don Francesco Vanotti in Sala Iris
Dio ci ha fatto speranza: l’augurio di Charles Peguy, che don Francesco Vanotti (nel tondo) ha fatto proprio, ha guidato l’incontro con i catechisti che si è tenuto martedì 11 marzo nella Sala Iris del Collegio Santa Chiara di Alessandria. La serata, che ha visto al centro l’esperienza di don Vanotti innanzitutto come sacerdote di comunità, ci ha condotto a profonde riflessioni sui temi della speranza e dell’annuncio del Kerygma. Come catechisti della Diocesi avevamo già nei precedenti incontri affrontato questi argomenti e l’occasione dell’incontro con l’autore è servita a ricentrare, ritarare, ricercare l’equilibrio tra tutti i temi affrontati finora; al centro c’è stato il testo “Artigiani di comunità” (le linee guida per la catechesi in Italia pubblicate dalla Cei nel 2021), che è stato utilizzato non solo come documento, ma anche come chiave di lettura per un’idea di comunità che sia sempre più concreta, nella quale molti collaboratori laici mettono le mani per costruire qualcosa di grande. Così, come catechisti, abbiamo potuto riflettere a raggiera: partendo dalla speranza e dal Kerygma, annuncio del Vivente, al centro, e usando il testo dell’ufficio catechistico nazionale per disegnare diversi raggi, come incontri, famiglie, bambini, liturgia ed esperienza. Fondamentale è diventato in una catechesi che debba essere avanguardia della Chiesa (“Artigiani di comunità” numero 21) offrire un’iniziazione che non sia più lezione frontale, ma che attraverso il pieno coinvolgimento delle famiglie, sia vera esperienza di Cristo incarnato nella Chiesa e in tutte le nostre comunità.
Ora mi permetto qualche considerazione personale. Il clima della serata è stato molto familiare e poco da “lezione frontale”. Ho avuto il piacere (e non è un modo di dire) di cenare insieme a don Francesco e alla nostra Equipe diocesana (lo chiamo “don Francesco” e non “professor Vanotti”, titolo che gli spetterebbe visto il curriculum accademico che ha). Nonostante non ci si fosse mai visti prima, è stato come conoscerci da molto tempo, come vecchi amici che si ritrovano. Un catechista, a fine serata, mi ha scritto questo messaggio: “Siete famiglia!!! Che bella famiglia!!! Grazie. Stasera non ero brillante… […] in tutto questo casino di vita siete diventati punto fermo”. E ancora, una catechista: “Voi siete un angolo di pace in cui ci si capisce e ci si sente comunità. Davvero un dono grande”. Dopo una cena e una “conferenza”? Davvero ho toccato con mano quello che don Francesco diceva: «Gesù è vivo (e tante volte ci dimentichiamo di dircelo) e ti vuole vivo!». Una familiarità così nasce non da un bel carattere, ma dal fatto che uno segue Gesù, come meglio riesce, e improvvisamente si guarda intorno e trova altri che fanno il suo stesso cammino: da qui nasce un’amicizia che va ben oltre la condivisione di interessi o passioni comuni. “Ma io non sono mica così bravo, io faccio un mucchio di sbagli, commetto un numero esorbitante di peccati”: questa è l’obiezione che rischia di bloccarci, come se l’annunciare Cristo fosse una questione di “infallibilità”. Ancora don Francesco ha smantellato questo falso mito: «Riconoscere le proprie fragilità di fronte alla misericordia di Dio è segno di speranza». Il limite umano, addirittura il peccato sono lo strumento di cui Dio si serve per arrivare al cuore dei ragazzi e degli adulti che ci sono affidati. Da un peccatore possono venir fuori cose grandi proprio perché a farle non sono io, ma Dio: il mio limite, paradossalmente, mostra ancora di più che non sono io ad agire, ma un Altro. Questo comporta che il catechista non sia mai da solo, ma dentro una comunità. Ne è espressione matura, coraggiosa, profetica.
Mi pare che l’indicazione più sintetica che porto a casa dall’incontro di ieri sera è questa: siamo chiamati a venir fuori noi, sono chiamato a venir fuori io. Non ci sono “ricette” per risolvere chissà quale problema, ma bisogna rimettere al centro l’esperienza personale in una comunità ecclesiale. Il catechista, insomma, è un adulto chiamato a farsi carico della propria comunità. «Abbiamo investito» ha ricordato don Francesco «moltissime energie in ingegnerie pastorali tentando di far rimanere le persone. Probabilmente non è questo l’obiettivo. E in ogni caso c’è la libertà dell’altro con la quale fare i conti».
Questo ho potuto toccare con mano ieri sera: giovani e “diversamente giovani” che hanno sfidato la pioggia (e l’attrattiva del divano…) per giocarsi, fare un passo insieme. Amici che a mezzanotte mi scrivevano (e probabilmente scrivevano anche ad altri) per sottolineare che quella serata era stata un punto bello nel loro cammino. Non solo di catechisti, ma soprattutto di uomini e donne.
Vorrei ricordare un’immagine forte. Papa Francesco ha voluto che si aprisse una Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, il luogo che, per definizione, deve avere le porte chiuse. Un segno coraggioso, profetico appunto, di Speranza: quella Speranza che va oltre ogni possibile calcolo o programma umano, e che apre dove c’è chiusura, innalza dove c’è piccolezza, umilia dove c’è superbia.
Porto a casa, e non solo io, una possibilità di camminare insieme ad altri, guidati da una guida certa, per rendere questa fetta di mondo che mi è stata affidata un po’ più vicina al disegno di Dio.
Leonardo Macrobio – direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano