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«Noi non chiediamo miracoli, ma la forza per dare ad Alberto un futuro migliore»

L’intervista a Gianni Massobrio

Gianni, partiamo dall’inizio: quando nascono i problemi per Alberto?
«Mio figlio è nato nel ’76, e i problemi nascono da lì perché sono legati ad alcune complicanze del parto. Fino ai tre anni lo sviluppo è stato normale. Poi si sono manifestati dei comportamenti anomali: per esempio muoveva spesso la mano all’altezza delle orecchie. Se a due anni diceva delle frasi, dopo i tre anni aveva smesso di parlare e aveva dei problemi con la masticazione, mangiava solo cose tritate. Bisogna dire che l’autismo si presenta in forma un po’ subdola, non ce ne si accorge subito».

E cosa avete fatto?
«Ci siamo rivolti ai medici dell’Infantile di Torino. Tantissimi esami e due diagnosi ma nessuno parla di “autismo”. Poi ci invitano a fare delle sedute all’Usl (Unità sanitaria locale, ndr) con uno psicologo infantile, ma anche qui i risultati sono pochi. Ci hanno fatto fare una tac al cervello: tutto normale. Peccato che mio figlio non si comportasse in modo normale…».

Poi arriva la svolta…
«Sì. Intanto mio figlio frequenta la materna, dove conosce delle bravissime maestre che lo seguono con pazienza, affetto e amore. Però avevamo in casa un malato e non avevamo le cure. Come genitori vivevamo un bruttissimo momento. Poi arriva la svolta: alla fine degli anni ’70, il pediatra vede in mio figlio la stessa patologia che riscontra in un altro paziente. Parlando con i suoi genitori ci mettono in contatto con un medico negli Stati Uniti, il dottor Carl Delacato. Questo medico era di Philadelphia, ma veniva in Italia ogni quattro mesi, ad Avezzano dove collaborava con un centro per l’autismo, e così prenoto una visita. L’incontro è stato importante, perché prima scopriamo che Alberto era iperuditivo, oltreché ipersensoriale per tutti i cinque sensi, e poi che era autistico. Era tutto un “iper” (sorride). Il dottore guarda la tac e riscontra un problema a livello celebrare, che prima nessuno aveva notato. E poi ci dice di aver fiducia in lui, con un programma avrebbe ridimensionato i problemi di nostro figlio. Infatti, dopo studi e ricerche il dottore ha ideato una terapia neuro-riabilitativa in grado di riorganizzare l’attività del cervello nei soggetti con determinate patologia. Così, ogni giorno per tre volte ci dà una serie di esercizi, di vario genere per interagire sugli aspetti sensoriali».

Qual è stata la vostra reazione?
«Eravamo increduli, non sapevamo cosa fosse l’autismo. Ma nello stesso tempo siamo stati confortati dal dottore perché ci ha dato delle speranze di recupero».

Questo percorso quanto è durato?
«Fino a un po’ di anni fa poi abbiamo dovuto cambiare perché Alberto era troppo adulto».

Torniamo indietro, Alberto in quegli anni va anche a scuola?
«Nel frattempo cresce, fa le elementari, poi le medie e anche il Liceo Magistrale, senza sostenere l’esame finale. In questi anni ha sempre avuto al fianco un insegnante di sostegno e ha partecipato con i suoi compagni a tutte le gite. Chi è portatore di handicap deve stare con i normodotati, sempre».

E dopo la scuola?
«I problemi per Alberto iniziano dopo il Liceo. Non sapevamo cosa fargli fare, allora l’ho iscritto all’Enaip e allo Ial, due enti di formazione, anche per portatori di handicap, con la possibilità di un inserimento lavorativo. Qui fa sei anni, ma non inizia mai a lavorare. Allora a 26 anni, ci siamo aggiustati: sono io che, con l’aiuto di altre persone, ho ideato un programma giornaliero fatto di diverse attività. Per esempio va in piscina, in palestra, a yoga».

Un altro luogo importante per voi è il Sermig di Torino (nella foto qui sotto). Ce ne parla?
«Certo, siamo molto legati alla fraternità fondata e guidata da Ernesto Olivero, che ha trasformato un arsenale militare in un arsenale della pace. Chi arriva lì trova sempre la porta aperta, un riparo, del cibo, degli abiti puliti. Qui porto Alberto a fare alcuni lavoretti: il giovedì, con l’aiuto di Annamaria, usiamo il computer per mettere in rete dei libri vecchi che non sono più in vendita; mentre il martedì sera c’è la preghiera nella nuova chiesa del Sermig, e anche un momento conviviale in cui Alberto racconta cosa ha fatto a due persone della struttura, don Alessandro e Marco».

Ecco, la fede quanto ha influito sulla vostra vita?
«Molto, direi che il Sermig ci ha “corrotto” (sorride). Noi non chiediamo miracoli, ma la forza per affrontare la vita giorno per giorno, per dare ad Alberto un futuro migliore».

Dalle istituzioni avete avuto una mano?
«Direi di sì. Il Comune di Torino, in accordo con l’Asl, ha fatto un progetto proprio per mio figlio: ha deciso di mettermi a disposizione un “affidatario”, un ragazzo più giovane di Alberto che viene tre volte a settimana. Due volte, in casa, fanno delle ricerche al computer, o degli esercizi per stimolare l’attenzione e la memoria visiva; la terza volta lo accompagna a fare delle commissioni e la spesa, o vanno a vedere musei ed esposizioni che abbiamo in città. Ma tengo a ringraziare anche qualcun altro…».

Prego.
«A Torino è stato istituito il Centro autismo regionale per adulti. Una realtà importante, perché il soggetto autistico “sparisce” dopo i 18 anni. Dieci anni fa abbiamo conosciuto il responsabile regionale, il dottor Roberto Keller, che ci ha dato e ci sta dando delle indicazioni importanti sulle problematiche di mio figlio. Oggi sono emersi nuovi aspetti autistici: mio figlio alterna periodo positivi, in cui svolge le attività, ad altri negativi, in cui non vuole fare nulla. Con il dottore stiamo lavorando anche sull’aspetto farmacologico. A una persona normale è facile dare una cura, per gli autistici non è cosi, ci sono dei segni da individuare. Un altro aiuto l’ho avuto dall’associazione “Autismo e Società” creata a Torino nel 2011 da Cristina Calandra e Massimo Aureli. Loro organizzano incontri di formazione sull’autismo, e sono di consulenza ai genitori. Inoltre, svolgono attività lavorative presso cooperative e hanno allestito un bistrot dove il 75% del personale impiegato è autistico».

Com’è il vostro rapporto con Alberto?
«È sicuramente particolare. Bisogna cercare di mettersi in sintonia con lui, e individuare quello che sta cercando di comunicare. Una frase molto bella dice: “Pensare a loro e non pensare per loro”. Bisogna aiutarli perché hanno delle esigenze, ma poi lasciamoli liberi di vivere il loro pensiero e la loro personalità. Lasciamoli liberi di avere la voglia di fare delle cose, o di non farle. Questo non è facile da capire, proviamo sempre a pensare al posto loro, ma è sbagliato. Lasciamoli vivere…».

 

Una parola di conforto a una coppia giovane con un figlio autistico?
«Bisogna avere coraggio e speranza. Coraggio per affrontare la vita con vostro figlio senza vergognarsi di nulla, chiedendo alle istituzioni tutto ciò che spetta di diritto. Non abbiate paura di agire ed essere dei rompiscatole, perché ci sono delle leggi e queste vanno rispettate. Bisogna insistere. E poi avere speranza nel futuro: adesso la ricerca è molto avanzata, e bisogna avere fiducia, perché si può intervenire subito e avere dei risultati. E poi dire una preghiera, quella aiuta sempre (sorride)».

10 cose che…

Mettersi nei panni di chi è autistico, entrare nella sua testa e provare a vedere il mondo con i suoi occhi. Questo è il messaggio che l’autrice, Ellen Notbohm, ha voluto trasmettere in “10 cose che ogni bambino con autismo vorrebbe che tu sapessi”. Ellen, oltre a essere scrittrice, vive in prima persona questa realtà perché è mamma di un ragazzo autistico.

Speciale a cura di Alessandro Venticinque

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