Intervista a Giorgio Vernoni, ricercatore dell’Ires Piemonte
L’Ires Piemonte, nato nel 1958, è un istituto di ricerca e analisi in campo socioeconomico e territoriale. Divenuto “ente strumentale” della Regione nel 1991, ogni anni pubblica una relazione sull’andamento socioeconomico del territorio piemontese. È da poco disponibile il rapproto “Il mercato del lavoro in Piemonte nel 2019 e nella prima fase dell’emergenza sanitaria”. Abbiamo chiesto al dottor Giorgio Vernoni (in foto qui sotto), ricercatore in economia del lavoro e tra i curatori del rapporto, di aiutarci a interpretare questi dati.
Dottor Vernoni, quali sono le motivazioni principali per cui, come evidenziano i dati, il Piemonte mostra una crescita più lenta rispetto ad altre regioni del nord, come Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto?
«Effettivamente, negli ultimi decenni il Piemonte è cresciuto meno delle altre regioni del Nord Italia nelle fasi espansive ed è decresciuto maggiormente nelle fasi recessive e, inevitabilmente, queste tendenze si riverberano nel mercato del lavoro. Le cause sono molteplici. Nel lungo termine, le conseguenze del processo di parziale deindustrializzazione, in particolare nel metalmeccanico e nel tessile, a cui sono seguite una riconversione e una diversificazione non del tutto compiute. Poi, dai primi anni 2000 in avanti, la regione e, particolare, l’area torinese hanno mostrato maggiori difficoltà a sviluppare dei servizi “di mercato” connessi all’innovazione tecnologica non solo destinati alla domanda locale, ma anche all’esportazione verso il resto d’Italia e verso l’estero. Da questo punto di vista l’accessibilità e il dinamismo dell’area milanese non hanno giocato a favore, determinando un forte drenaggio di intelligenza sia in termini di direzionalità d’impresa sia in termini di persone e competenze. Gli atenei piemontesi producono degli ottimi laureati, che però trovano sbocchi più soddisfacenti altrove. Questa dinamica “migratoria” si innesta inoltre sul processo di invecchiamento e diminuzione della popolazione piemontese, i cui effetti stanno diventando più evidenti».
La provincia di Cuneo risulta la migliore in regione in quanto a occupazione. A cosa è dovuto ciò?
«La provincia di Cuneo costituisce a tutti gli effetti un’eccezione, una porzione di regione che mostra dati occupazionali allineati e, talvolta, migliori delle più avanzate regioni italiane ed europee. Le ragioni di questo successo sono riconducibili ai fattori che ho richiamato per la regione, ma nella direzione opposta. Negli ultimi trent’anni il Cuneese ha saputo diversificare la propria economia, ristrutturando, senza perderlo, il settore metalmeccanico e sviluppando al contempo quella che potremmo definire “un’economia della terra” fatta di un’agricoltura molto articolata, economia del vino, industria alimentare e turismo enogastronomico. Questo maggiore pluralismo economico, tra l’altro molto orientato alle esportazioni, rende questo territorio più forte nelle fasi di difficoltà e lo aggancia a una domanda molto qualificata nelle fasi espansive».
Anche nel primo mese di lockdown i settori tessile e metalmeccanico sono risultati tra i più in difficoltà, accelerando una crisi già visibile nel 2019 e nel 2018. A cosa sono dovute queste difficoltà nei due settori? Questa tendenza negativa è confermata anche dai dati italiani oppure è un “unicum” piemontese?
«Per quanto riguarda il tessile, la contrazione appare più congiunturale ed è legata in parte al cambiamento dei consumi e in parte all’inevitabile contrazione della domanda causata dalla pandemia, tenuto conto che il settore ha saputo riqualificarsi negli anni passati. Per il metalmeccanico, che poi in Piemonte e a Torino significa molto automotive, si tratta di un fenomeno più ampio legato al passaggio a un nuovo paradigma della mobilità incentrato sulla diversificazione dei mezzi, per esempio la micromobilità, e sull’elettrificazione e la digitalizzazione dell’auto. Questo cambio di paradigma sta investendo l’intero settore a livello mondiale e, per forza di cose, anche la principale azienda insediata in Piemonte, che infatti ha avviato un altro processo di fusione».
Per quale motivo le province del nord del Piemonte mostrano i dati più negativi sull’occupazione?
«Il Nord del Piemonte, che però è un’entità molto articolata, sconta inevitabilmente una posizione geografica più lontana dalle grandi direttrici di traffico non solo fisico, ma anche informativo e di relazioni. Anche qui si registrano gli effetti lunghi di processi evolutivi nel settore manifatturiero, penso a quanto è accaduto nell’industria del metallo e del casalingo, che ancora negli anni ’90 era un modello da studiare, poi è andata incontro ad acquisizioni, ristrutturazioni e delocalizzazioni che hanno inciso sulla sua identità: il successo di quei prodotti incorporava una forte componente simbolica legata alla storia locale che ora fatica a trovare nuovi interpreti».
Come vede la situazione lavorativa piemontese nel prossimo futuro?
«L’impatto occupazionale dell’emergenza Covid sarà sicuramente significativo, ma in questa fase è davvero sconsigliabile fare previsioni: gli sviluppi della crisi sono per ora difficili da valutare per l’assenza di modelli di riferimento, per le diverse variabili in gioco e per l’incertezza sull’evoluzione dell’epidemia. È però vero che alcune tendenze preesistenti risulteranno accelerate: pensiamo alla forte spinta impressa all’ulteriore digitalizzazione dell’economia e all’evoluzione dei modelli di business e di produzione. Tra le molte cose, presterei quindi molta attenzione a queste tendenze e ad altri due fenomeni in particolare: il primo è la perdita di direzionalità e di spirito imprenditoriale e il secondo è il trend demografico. Forse nell’interpretazione di queste dinamiche evolutive sarà possibile trovare delle soluzioni».
Marco Lovisolo