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Don Ivo, 80 anni guardando al futuro

Il sacerdote alessandrino si racconta a Voce

«Questo traguardo mi fa apprezzare sempre di più il tempo e la salute che ho. Certo, un qualche pensiero viene… Per esempio, il pensiero che tra dieci anni, o di qua o di là, ne avrò 90. Sia chiaro, o di qua o di là (sorride). Ma la cosa mi lascia sereno, perché non mi sono mai annoiato, quello che ho trovato davanti l’ho sempre voluto fare. Insomma, una vita piena. E adesso, anche se non so quanto rimarrà, questo traguardo mi spinge a utilizzare e a vivere al meglio quel che c’è. Quello che la Provvidenza mi manda. Sai, mi sorprende vedere tanti miei coetanei con mille problemi, che non deambulano più o che cercano di “ammazzare” il tempo. Tutto può succedere da un momento all’altro, per questo io voglio tenere la testa e il cuore giovani. Non smetto di fare progetti: quello che si può fare, lo si fa. Il resto lo decide la Provvidenza». Don Ivo Piccinini, storico parroco di San Michele, mercoledì 24 luglio ha compiuto 80 anni. Gli abbiamo chiesto di raccontare a Voce questo importante traguardo, e lui ci ha parlato di ricordi, di esperienze, del presente e delle difficoltà della Chiesa. Ma anche di futuro, di progetti e di quello che sarà.

Don Ivo, come sta e come arriva a questo traguardo?

«Ci entro nel modo migliore. Ma ricordo che ho avuto due ricoveri in ospedale, molto gravi: nefrite e pancreatite. Per la pancreatite, parliamo del 2008, ricordo che il dottor Spinoglio, dopo aver finito il turno, si siede accanto al mio letto, in borghese, e mi dice: “Lei non è messo bene, lo sa? È piazzato come il suo collega, don Pozzi”. Era stato mio professore, don Mario Pozzi. Dopo essere stato ricoverato, anche lui per pancreatite, dopo 30 giorni era morto. Impressionato da quella frase, gli rispondo: “Ma lei chi è?”. E lui si presenta: “Sono il primario” dice. Allora mi tranquillizzo. Dopo lo spavento e le giuste cure, però, ho superato anche quello».

E la nefrite?

«Ancora prima. Facevo quarta Ginnasio e mi sono ammalato di nefrite. Ho rischiato di perdere l’anno, perché da febbraio in poi sono stato ricoverato in ospedale. Prima, ricordo che una domenica mattina ho perso i sensi: mi risveglio e, con i miei genitori, c’erano monsignor Vincenzo Massobrio e il dottore. Il dottore era lì per capire cosa stesse succedendo, il parroco perché gli avevano detto che non c’era più nulla da fare. Proprio in quell’occasione ho fatto il voto a Sant’Antonio da Padova. Ho detto: “Se studio, entro in seminario e divento prete, faccio un pellegrinaggio a Padova, da Sant’Antonio, per ringraziarlo”. E così ho fatto».

Nei momenti difficili a chi chiede aiuto?

«Mi raccomando alla Madonna, ma anche ai miei genitori, che reputo sante persone. Sono cresciuto in una famiglia in cui a noi bambini veniva chiesto di seguire il rosario che dettava il mio papà: era lunghissimo, con tutte le litanie e il ricordo dei defunti. E poi, a fine giornata, i figli dovevano chiedere la benedizione sia al papà sia alla mamma. E questa cosa la ricordo dopo 80 anni, mi fa tanta tenerezza… quel gesto aveva un profondo significato, anche umano. Ci ha aiutato a crescere, a me e alle mie sorelle».

Ha un rimpianto nella sua vita?

«Sono stato “fregato” da diverse persone. Ma ho perdonato, sono andato oltre. Mi ha aiutato sempre un proverbio che mi ripeteva la mia mamma: “Quando si chiude una porta, poi si apre un portone”. Era saggezza popolare».

Cos’è per lei San Michele?

«È la mia grande famiglia, San Michele. Da seminarista sognavo una parrocchia con tanti spazi intorno, spazi fisici. Perché volevo fare della parrocchia un luogo dell’inclusione, della collaborazione, un posto per tutti. Oggi, tante volte, mi fanno delle osservazioni: “Ma tu sei amico di questo, di quell’altro…”. E io dico: “Sì, ma sono anche amico dell’altro e dell’altro ancora”. Io non sono di nessun partito. Anzi, sono del partito dell’uomo e della donna, che ho la responsabilità morale di accompagnare spiritualmente e, se possibile, anche umanamente. Da queste persone ho sempre avuto di più rispetto a quanto ho dato. E oggi la mia sofferenza è vedere che dobbiamo chiudere delle chiese, per mancanza di pastori. Non ci dormo la notte, per questa cosa».

Perché le persone non vanno più in chiesa?

«Un’altra cosa per cui non mi rassegno. Noi cresimiamo il 100% di quelli che battezziamo, e se va bene, in una piccola parte, li rivediamo al matrimonio. E basta. Gli anziani vanno da un’altra parte per la Liturgia celeste, e i giovani non abbiamo trovato il modo per farli perseverare. O hanno una base, progetti di vita e spirituali seri e forti, oppure sono abbandonati. È passata l’idea che sia sufficiente essere rispettosi e rispettare le leggi. La Chiesa non è una priorità, non c’è più nella loro vita. Non è più concepito vivere la relazione con il Signore e alimentare questo rapporto con la presenza fisica, la frequentazione della Messa e la preghiera in comunità. Toccherà morire senza vedere le chiese piene come una volta. Noi, di fronte ai fallimenti, siamo pronti a cercare giustificazioni. Ma dovremmo farci più domande».

Don Ivo, lei ha paura della morte?

«No, secco. Ho paura che per arrivarci io debba passare momenti e anni difficili, in cui non sono autosufficiente. Diventando così un peso per gli altri, e la fatica diventa doppia. Non ho paura, e poi c’è ancora questo tempo per studiare e lasciare qualcosa che duri nel tempo».

Sogni nel cassetto?

«Sogno di poter chiudere quel progetto pensato, subito dopo l’alluvione, con la Caritas Ambrosiana che ci aveva aiutato per comprare le cascine. Per vari motivi sono passati 30 anni, e solo adesso ci stiamo mettendo al lavoro. Ho preparato alcuni laici e stanno mettendo mano a questo progetto, ovvero creare un portierato di quartiere per la comunità ma anche per chi vive ad Alessandria: un luogo dove gli anziani vengano accolti quando sono soli e non sono autosufficienti. Un luogo in cui possano passare la giornata, avere qualcuno che prepari da mangiare e si prenda cura di loro. Un’alternativa alle case di riposo e alle badanti. È una richiesta che ho avvertito spesso nella mia esperienza quotidiana, durante le visite fatte nelle case dei parrocchiani, dove ho conosciuto parecchie situazioni delicate delle famiglie. Voglio mantenere questa visione sempre inclusiva della comunità, e dare a tutti l’opportunità di essere utili. Per non sentirsi un peso e sentirsi accolti».

Alessandro Venticinque

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