Care lettrici,
cari lettori,
questa settimana ricordiamo su Voce i 30 anni della tragica alluvione del 1994, che sconvolse in maniera dolorosa e imprevedibile la nostra città (e non solo). Lo abbiamo fatto a modo nostro, intervistando due sacerdoti, don Gino Casiraghi degli Orti e don Ivo Piccinini di San Michele, che all’epoca furono in prima linea: non solo per confortare e aiutare gli sfollati, ma anche per coordinare quella ondata di solidarietà (secondo la definizione di Alessandro Venticinque, autore dell’intervista) che invase la nostra città e i sobborghi colpiti dalla furia delle acque.
Nei racconti di don Gino e don Ivo possiamo trovare diversi spunti, alcuni davvero interessanti: il più rilevante, a mio avviso, è che nelle emergenze il nostro “cuore” (cioè le domande vere di bene, di giustizia e di felicità che abbiamo tutti) viene sollecitato e risponde. Ricordo bene la generosità dei tantissimi volontari venuti ad Alessandria a spalare e a dare una mano: in mezzo a tutto quel fango era evidente che la legge della vita è donarsi, non conservarsi egoisticamente. Non è il divano, non sono le quattro cosine, i cavoli nostri da proteggere rigorosamente dall’assalto degli “altri”, fossero anche amici o familiari… Eppure, perché in condizioni “normali” questo cuore, ossia la legge della vita che ci chiede di darci gratuitamente per essere noi stessi, non si esprime? Ci sembra scomoda, innaturale e la sopprimiamo. Perché senza disgrazie o calamità (come le ultime in Emilia-Romagna, o in Spagna) ci dimentichiamo di vivere ogni giorno all’altezza della nostra umanità, con gratuità verso i nostri fratelli?
Credo sia una questione fondamentale, se siamo impegnati lealmente con la vita (altrimenti lasciamo stare: ci bastano Netflix, il calcio nel weekend, qualche piacere fugace e siamo contenti così). Ma c’è qualcuno che ci può aiutare a capire meglio come siamo fatti? Generosi nelle avversità, egoisti nella vita quotidiana? Mi torna alla mente quanto scrisse Cesare Pavese nei suoi “Dialoghi con Leucò”, anno 1947: «Né la morte né i grossi dolori scoraggiano. Ma la fatica interminabile, lo sforzo di star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le gambe».
Mi sento descritto totalmente in queste parole, non so voi. Il vivere che taglia le gambe: possiamo far finta di non pensarci?
Andrea Antonuccio – direttore@lavocealessandrina.it