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Da sinistra, Di Menza, Akouassa e Seymandi

Il volontario come operatore di pace

LE STORIE DI VOCE

Intervista ai responsabili de “L’Abbraccio”di Fubine e al direttore dell’Ospedale pediatrico di Sokponta

Si è appena svolta a Fubine “Africare”, evento dedicato al volontariato, alessandrino e non solo. “L’Abbraccio onlus” (www.labbracciofubine.it), ente promotore dell’iniziativa, ha dato come tema di questa edizione il “volontario come operatore di pace”. Accompagnati dal dottor Pier Luigi Seymandi, abbiamo incontrato il presidente dell’associazione, Pino Di Menza, e Jacques Akouassa, 40 anni, pediatra e direttore sanitario dell’Ospedale pediatrico di Sokponta in Benin, di passaggio ad Alessandria prima di un congresso medico a Parigi. II reparto di neonatologia dell’ospedale di Sokponta, dove Jacques da qualche tempo opera, è stato aperto grazie al sostegno dei volontari de “L’Abbraccio”.

Dottor Di Menza, che cosa significa “volontario operatore di pace”?
Di Menza: «Non basta il termine italiano di pace, dovremmo rifarci al termine ebraico “Shalom”, che non ha solo un significato di pace, ma anche di armonia, ordine e gioia del cuore. Non solo pace nel mondo, dunque, ma pace come pienezza di vita. E la pace non esiste senza la giustizia. L’uomo giusto è l’uomo vero che mette l’altro come fine della sua vita. La felicità da sola non esiste, esiste solo se la fai raggiungere all’altro. Il volontario vuole confrontarsi con l’altro alla pari, cerca di distribuire ciò che ha e, se necessario, chiede perdono».

Qual è la responsabilità del volontariato?
DM: «I volontari devono cercare di prendere consapevolezza, devono farsi sentire facendo Politica, con la “P” maiuscola. Questo può abbattere la competizione tra le associazioni, per far diventare tutte le voci un unico coro. Anche i poveri si raggruppano in un unico coro. In questo momento storico anche in Italia i poveri condividono la stessa situazione: povero il migrante e povero l’italiano, messi quasi l’uno contro l’altro. Ma come cristiani non possiamo accettarlo. Se le voci si unissero in un solo coro, si riuscirebbe a comunicare e a capirsi. E si potrebbero
cambiare le cose».

Parliamo de “L’Abbraccio”.
DM: «Noi cerchiamo di mettere concretamente in atto la giustizia: non esiste il “nero” e il “bianco”, ma esistono Jacques, Pino e tutte le persone che incontriamo. Al di là delle categorie, abbiamo scoperto che siamo due persone con un obiettivo comune da raggiungere. Si fa un pezzo di strada insieme, per arrivare a dire: “Io sono un uomo, tu sei un uomo”. Stiamo cercando di creare dei legami, avere delle relazioni autentiche e dialogare».

Volontari si nasce?
«Il volontariato può incidere nella storia se fa un percorso di crescita. Volontari non si nasce ma si diventa, cercando di diventare più uomini: “l’altro” deve diventare un oggetto quasi di contemplazione. Il nostro abbraccio lo circonda ma gli lascia spazio».

Jacques Akouassa, lei quando ha incontrato “L’Abbraccio”?
Akouassa: «Era il 2017. Allora ero pediatra in un ospedale privato a Cotonou. Un mio collega che lavorava a Sokponta mi ha chiamato e mi ha detto che voleva incontrarmi. Ho pensato: “Chissà che cosa avrà da dirmi…”. Poi ci siamo parlati: “A Sokponta ci sono tanti bambini, c’è bisogno di un pediatra. Vieni e vedrai”. La distanza era un problema: 210 chilometri da Cotonou a Sokponta, tre ore e mezza di viaggio con le strade del Benin. Finché un giorno, trovandomi in zona per un matrimonio, ho deciso di fare un salto e rendermi conto della situazione».

Qual è stata la sua prima impressione?
A: «La prima volta che ho visto l’ospedale di Sokponta sono rimasto colpito, era pieno di bambini e di malati in cura. Ho chiesto: “Quanti siete? Non c’è un pediatra?”. Erano tantissimi, e il pediatra non c’era. Io lavoravo a Cotonou, in un ospedale privato, e guadagnavo bene… ero comunque interessato al progetto di aprire un reparto di neonatologia, e mi sono detto: “Provo ad aiutarli almeno all’inizio, e poi vediamo”. Sono partito andando a Sokponta una volta alla settimana, poi due e alla fine dell’anno ho disdetto il contratto con l’ospedale privato e ho preso la mia decisione. Mia moglie e i nostri tre figli sono rimasti a Cotonou, io a Sokponta. Torno a casa solo nel weekend, e non mi pesa».

Quando è stato aperto il reparto di neonatologia?
A: «Dopo sei mesi. Il nostro dipartimento è l’unica unità che può accogliere i neonati con problemi di una certa gravità. In Benin ci sono 11 milioni di abitanti, nel dipartimento Collines siamo in 850 mila e di questi il 47% è sotto i 15 anni».

Si è mai pentito della sua scelta?
A: «No, per nulla. Anzi, ogni giorno che passa sono sempre più motivato, anche se non riesco ancora a capire perché ho mollato tutto per andare a Sokponta (ride). Questo è un ospedale frequentato da poveri: pensate che anche se uno non ha un soldo l’ospedale lo cura. Tutto ciò è veramente eccezionale ed è possibile perché ci sono delle persone, come Pino Di Menza e Pier Luigi Seymandi (a destra nella foto), che ci seguono e ci “accompagnano”. Questa cosa continuerà e non chiuderà perché c’è amore verso il prossimo. Mi accorgo che la mia motivazione per lavorare è cambiata: al mattino mi sveglio contento, perché mi sento veramente utile».

Andrea Antonuccio / Alessandro Venticinque

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