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“Take a knee”: sì o no?

“La testa e la pancia” di Silvio Bolloli

Tutto cominciò cinque anni fa, nel 2016, quando Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, lanciò l’idea (non voglio, non ancora, usare la parola “moda”) di inginocchiarsi in occasione dell’Inno Nazionale prima delle partite della “Major League” di football: il coraggioso giocatore – coraggioso perché da quel momento in poi si trovò letteralmente emarginato – dichiarò che il suo era un gesto di protesta nei confronti di un Paese non ancora in grado di superare la discriminazione razziale.

Non tutti la presero bene, a cominciare dall’allora Presidente Donald Trump che – con gli eccessi che ne hanno sempre caratterizzato lo stile – invitò le Società Sportive a licenziare, addirittura, gli autori di tale genere di protesta.

Tuttavia, se il pioniere del gesto ne pagò le conseguenze in prima persona, lo stesso si diffuse comunque a macchia d’olio e ne abbiamo avuto recente, clamorosa, manifestazione, proprio in occasione dei Campionati europei di calcio per Nazionali. Ma – ecco il passaggio dal concetto di gesto simbolico a quello di moda – qualcosa si ruppe quando il calciatore inglese di origini ivoriane del Crystal Palace Wilfred Zaha comunicò che non lo avrebbe più attuato poiché, a suo dire, lo stesso aveva smarrito la propria originaria valenza.

La situazione attuale appare, invero, a macchia di leopardo anche se le defezioni sono in crescita se si considera che perfino il Capitano della Nazionale francese (recentemente eliminata dalla Svizzera) Raphael Varane ha comunicato, a conclusione di un summit con i propri compagni di squadra, (molti dei quali colored – a cominciare da Mbappé e Pogba) che s’è deciso di non seguitare nell’azione proprio perché, a dire dei calciatori transalpini, la stessa non avrebbe più molto senso.

È dunque difficile, oggi più che mai, tracciare quel sottile ma profondo solco che separa un gesto che vuol comunicare un messaggio da un’azione di facciata che possa ghettizzare chi non la compie, o viceversa, ma, senza voler entrare nel merito della querelle, credo che il concetto di fondo sia un altro, quello – antico ma banale – del tutti o nessuno. Non è dunque l’inginocchiarsi che conta quanto il non riuscire a trasmettere un senso di unanimità e di concordia che, a onor del vero, rischia di far più danni e di lanciare comunicazioni fuorvianti e controproducenti rispetto a quell’universale messaggio di apertura e di tolleranza che dovrebbe essere di tutti.

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