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Quella “grata” che porta al Cielo

Speciale Madonna della Salve/3

La copertina di don Michele Molinar: «Alla scoperta della comunità»

Don Michele Molinar è salesiano da 48 anni e sacerdote da 38 anni. Di questi 38 anni da sacerdote, sei li ha trascorsi ad Alessandria.

Don Michele, da dove è partita la tua scelta salesiana?

«Molto semplice: non è partita da don Bosco ma dai salesiani, che in collegio (sia da ragazzino alle medie che al triennio superiore) vedevo come degli angeli custodi. Perché stavano con me, con noi, sempre, con la talare, giovani e anche meno giovani. Giocavano con noi, li avevamo a scuola, poi in refettorio, in studio, in camerata, nei momenti di divertimento e di preghiera ci erano sempre accanto. La percezione era che fossero proprio degli angeli custodi. Mi sembrava che non avessero una vita privata e fossero sempre al nostro servizio. Questa è stata la percezione che ha fatto scattare in me l’idea, l’ispirazione di dire: “Piacerebbe anche a me fare quello che fanno loro”. E poi è partito il tutto con la scoperta di una comunità: non erano dei singoli che facevano delle cose a tempo determinato incastrandosi per noi, ma c’era una comunità e dietro a questa una consacrazione e nella consacrazione, con la comunità in questo servizio salesiano, la scoperta della paternità spirituale. Punto. Che bella vita!».

Giuditta Boscagli, insegnante

Il tema di questa intervista è la Misericordia: abbiamo pensato di interpellare una persona che cinque anni fa abbiamo conosciuto attraverso le pagine di Voce Alessandrina. Lei si chiama Giuditta Boscagli, ci aveva raccontato la sua storia (scritta anche in un libro, “Il cuore oltre le sbarre” di Itaca edizioni). La sua vicenda personale già allora ci colpì molto: oggi proviamo ad approfondirla anche alla luce di questo ottavario della Madonna della Salve.

Giuditta, il suo libro parla di misericordia. È una storia vera, un’esperienza personale: ce la può accennare?

«Questo libro nasce per una profonda gratitudine alla mia storia, perché la vicenda narrata tra le pagine è quella mia e di mio marito. L’ho conosciuto nell’estate del 2010, quando lui stava scontando una lunga pena detentiva in carcere. Ci siamo incontrati al Meeting di Rimini, in una delle sue prime uscite con permesso dal carcere. Quello che mi ha colpito quando io e lui ci siamo visti per la prima volta è stato proprio incontrare degli occhi buoni in una storia di fatica, di sofferenza, che l’aveva portato in carcere per degli sbagli commessi e che lui stava in qualche modo espiando. Quello che mi aveva colpito dell’incontro con lui è che una delle domande che ricorreva spesso nella sua mente era proprio: “Ma perché a me questa seconda possibilità?”. Perché lui, finito in carcere a 21 anni, aveva avuto comunque occasione di accedere a percorsi di istruzione, quando io l’ho conosciuto stava lavorando. Aveva trovato delle amicizie dentro al carcere e alcuni amici non lo avevano lasciato quando lui era stato arrestato, così come la sua famiglia. Per cui quando noi ci siamo conosciuti si domandava come mai, rispetto a tante altre storie di detenzione che non finiscono allo stesso modo, proprio lui fosse stato scelto invece per potersi riprendere in mano la vita. Noi ci siamo innamorati in quella prima occasione di incontro e il nostro rapporto per tre anni e mezzo è stato a distanza (io abitavo a 250 km dalla città dove lui era detenuto) fatto di tante lettere, di tanta attesa, ma questa gratitudine per la storia che c’era stata regalata ci sembrava impossibile tenerla solo per noi. A me è sempre piaciuto tanto scrivere: avevo deciso di tenere un diario quando ci siamo incontrati, perché capivo che quello che stava succedendo a noi era troppo prezioso per lasciarlo sfuggire. Poi pian piano è nata la decisione di farlo diventare un romanzo, un libro che fosse fruibile da tutti, proprio perché forse possibile a tutti capire che davvero è possibile a riprendere in mano la propria vita, qualunque cosa accada. Dopo tre anni e mezzo di fidanzamento a distanza lui è potuto tornare a casa e cinque settimane dopo la sua scarcerazione ci siamo sposati: la foto di copertina infatti siamo noi due il giorno del matrimonio».

Allora è vero che la misericordia in qualche modo rinnova completamente la persona e la sua storia o ci lascia comunque qualche incrostazione? A distanza di anni, lei cosa ci può raccontare?

«Io parlo per me più che per mio marito, nel senso che la prima misericordia di cui ho fatto esperienza incontrando lui è stato proprio di un bene enorme per la mia vita. Sicuramente gli sbagli che noi facciamo lasciano una ferita, ma è come la cicatrice quando una ferita si richiude, si rimargina: il segno resta. Rimane il segno degli errori, del male che noi facciamo ma la cosa eccezionale della Misericordia è che abbraccia quel segno, lo accoglie, lo custodisce: proprio perché la cicatrice si vede, è ancora più grande il segno che la Misericordia esiste. Perché lo sbaglio viene abbracciato da un amore più grande del male che si è commesso, da un amore più grande del dolore, delle fatiche e anche del senso di colpa che magari può continuare ad accompagnarci. Ma tutta questa incrostazione, che potrebbe restare ancora (perché noi rimaniamo anche un po’ attaccati ai nostri sbagli, alle nostre fatiche) dentro un abbraccio così si capisce che non sarà mai l’ultima parola sulla grandezza della Misericordia».

Rileggendo la vostra storia, è più facile perdonare o essere perdonati, lasciarsi perdonare da qualcuno?

«Per quanto riguarda la mia storia, direi che la fatica più grande forse è proprio farsi perdonare, cioè accettare che questa Misericordia sia così grande e così assolutamente senza misura. Perché mentre forse anche per un po’ di altruismo, di bene sperimentato sulla propria pelle è forse più facile perdonare agli altri, diventa sempre difficile invece utilizzare questa “misura senza misura” verso se stessi. Un po’ per orgoglio, un po’ perché noi vorremmo tantissimo essere molto di più, molto meglio di quello che invece ci troviamo ad essere, facciamo fatica a guardare con la stessa misericordia i nostri sbagli, le nostre fatiche. Sicuramente però quando ne facciamo esperienza dagli altri, impariamo che è possibile voler bene anche a noi stessi, alle nostre stesse fatiche, ai nostri stessi sbagli e tutto l’amore il bene che ci viene quando perdoniamo gli altri capiamo che in realtà noi lo dobbiamo anche a noi stessi. Però credo che si faccia sempre più fatica a perdonare sé che non a perdonare gli altri e quindi a lasciarsi perdonare, ad ammettere di aver sbagliato e ricominciare dentro un abbraccio amoroso che è la misericordia».

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