La storia di Fabio Cantelli Anibaldi
È stato uno dei protagonisti più apprezzati dal pubblico: il suo sguardo ipnotico e il suo viso scavato raccontano di un uomo che vive e lotta quotidianamente con il suo passato e il suo presente. Oggi vive a Torino, dopo aver lavorato in una libreria, è stato condirettore della rivista Narcomafie e anche redattore dell’Infedele di Gad Lerner. Entra poi al Gruppo Abele, l’onlus di Torino fondata nel 1965 da don Luigi Ciotti, prima come responsabile dell’ufficio stampa e da pochi mesi come vicepresidente. Cantelli ha all’attivo anche diverse pubblicazioni. In particolare, nel 1996 ha pubblicato l’autobiografia “La quiete sotto la pelle” (Edizioni Frassinelli), in cui racconta l’esperienza di San Patrignano. Proprio questo libro andrà in ristampa a marzo, per Giunti editore, con il titolo “Sanpa, madre amorosa e crudele”.
Fabio Cantelli risponde al telefono al primo squillo. La nostra chiacchierata dura oltre un’ora. Più mi racconta la sua storia e più sembra di stare su una montagna russa: alti e poi bassi, risalite e poi tonfi impressionanti. La droga entra nella sua vita a 18 anni, quando è ancora studente e figlio di una famiglia agiata di Milano. Già, perché la droga non guarda in faccia nessuno: non guarda il tuo aspetto fisico, se hai vestiti costosi addosso, se vivi in una catapecchia o con quanti zero finisce il conto in banca dei tuoi genitori. La droga entra, s’impossessa di tutto e fa tabula rasa. Si siede al tavolo e comincia a mangiare tutto quello che le capita sotto gli occhi. E quando ti accorgi che quel tavolo sei tu, è troppo tardi.
Così, come i tanti che finiscono nelle “calde” braccia della dipendenza, Cantelli si accorge dopo poco di esserne già dentro. Allora inizia a “farsi” non più per piacere, ma per necessità, altrimenti sta male. Più ne ha e più ne vorrebbe avere. Più soldi gli servono e più deve rubare. Così, via via, una serie di cadute. Alcune lasciano anche il segno addosso, come il carcere, il tentato suicidio e l’Hiv. E poi? «O muori o ne esci» mi dice con voce ferma. Lui riesce a uscirne anche grazie alla comunità di San Patrignano.
Ma per Cantelli la droga è stata un palliativo utile a riempire quel “buco” costante fatto d’inquietudine, che gli fa compagnia dagli anni della gioventù. Quello stesso buco che, anche oggi, tanti giovani cercano di riempire in ogni modo e con qualsiasi tipo di droga. Alla ricerca di un paradiso in terra che possa alleviare le loro sofferenze e soffocare le paure.
LA RELAZIONE CON LA DROGA
Cantelli, la sua vita è una “montagna russa” di emozioni.
«(Sorride) Potrei cavarmela dicendo che prima la mia vita era un inferno, adesso non lo è più. Ma le cose non stanno cosi, perché sono stato sempre un’anima inquieta. La grande differenza è che prima ero vittima della mia inquietudine, e la droga era il metodo più efficace per placarla. Ora sono sempre un’anima inquieta, forse anche più di prima, ma ho smesso di avere paura di questa apprensione che, essendo domata, è diventata la mia compagna di vita, la mia luce».
L’ha nominata lei per primo: allora parliamo del suo rapporto con la droga.
«L’incontro con la droga è stato significativo. Ho avuto l’intuizione, e anche la fortuna, di scegliere la tossicodipendenza dura, randagia, da strada. Penso di essere l’unico tossicomane che ha iniziato dalla fine: l’eroina in vena. Sono andato subito al sodo (sorride). E poi non mi sono fatto mancare nulla, ovvero tutto il corollario della tossicodipendenza: rubare, mentire, tradire, prostituirmi, finire in carcere. E poi anche la malattia. Dico fortuna perché sono convinto che la droga vissuta in maniera radicale ti lascia soltanto un’alternativa: o muori o ne esci. Se hai la forza di uscirne, questa esperienza ti aiuterà a capire chi sei e come orientarti nella vita. Così, quell’inferno diventerà un punto di forza».
La prima dose se la ricorda?
«Come faccio a dimenticarla? Era il 2 aprile 1980, avevo 18 anni. Mi trovavo in una villa a Lugano, ero innamorato perso di una ragazza della quale sapevo vagamente che avesse esperienze con le droghe pesanti. Anche io avevo un’attrazione verso quelle più massicce, non mi interessavano quelle leggere. Mi dicevo: “Se proverò le droghe, proverò quelle vere”. Succede che questa meravigliosa ragazza mi fa capire che le interesso. In questa villa c’era anche il suo compagno, ma non era un problema, perché erano una coppia “aperta”. Lei tira fuori la “roba”. Mi dice: “Vuoi provare?”. Rispondo: “Perché no?”. E della potenza dell’eroina me ne sono subito reso conto. Quella notte poi finiamo a letto, lei cerca di attrarmi fisicamente, ma a me non me ne fregava più nulla: né di lei né del sesso. Avevo scoperto l’eroina… Eccome se me la ricordo quella volta (sorride)».
Quei «perché no?» durano ancora per tanto?
«No, dopo poco tempo c’ero dentro fino al collo. Passa un anno e intanto mi ingegnavo a capire come trovare i soldi, in quegli anni la droga costava tanto. Incontro un mio amico, anche lui tossico, che aveva già imparato a rubare. Il classico furto del tossicomane era quello dell’autoradio, al massimo passavi allo scippo o alle rapine in farmacia. Noi eravamo in controtendenza, scegliemmo una modalità diversa: furti nei negozi d’abbigliamento. Era l’epoca della “Milano da bere”, quella dell’alta moda».
E i suoi genitori?
«Non vivevo in casa, i miei già soffrivano abbastanza, non volevo imporre la mia dipendenza. Quindi ogni giorno cercavo un posto per dormire: da un amico, in una squallida pensione o alla peggio su una panchina. Mi sono formato in strada. Poi è arrivato anche il carcere, mi beccarono nel modo peggiore: mentre vendevo i capi rubati. Quindi i reati erano due, furto e ricettazione. Entro a San Vittore nell’agosto dell’82. Per mia fortuna ci rimango poco, è stata un’esperienza sconvolgente. Il magistrato di sorveglianza disse: “Lo scarcero solo se inizia un programma di recupero”. Così, nel settembre ’82 vado a “Le Patriarche”, una comunità in Francia, dove si pagava una retta alta e che la mia famiglia poteva permettersi. È servita a poco, rimango qualche mese e poi scappo via».
DIECI ANNI A SAN PATRIGNANO
Nella sua storia appare San Patrignano.
«In comunità arrivo il 15 ottobre dell’83, era già grande. Vengo accolto da Muccioli (nella foto, qui sotto, con Paolo Villaggio che portò il figlio Piero in comunità, ndr). Ricordo che appena entrato mi danno la mia maglietta della lavanderia ed ero il numero 321. Erano gli albori dello sviluppo, che arrivò poi nella seconda metà degli Anni 80. Lì iniziarono i miei dieci anni a Sanpa…».
Tra l’83 e l’84 scappa sei volte dalla comunità, ma qualcuno la riporta sempre indietro. Qual è stato il punto più basso?
«Sono arrivato a tentare il suicidio. Dopo essere scappato, nel mezzo di una crisi di astinenza, mi riportano a Sanpa e mi chiudono 18 giorni in una casetta di cemento di tre metri per tre. Non avevo oggetti, sbattevo la testa contro la porta di ferro. Volevo farla finita, ma il mio corpo non voleva. Se ci fosse stata una finestra non sarei qui a parlare… Dovevo trovare un modo per porre fine alla mia sofferenza che era diventata insopportabile. Non ho mai oltrepassato quel limite. Ma quei giorni di reclusione mi hanno salvato, è stato un momento di resa e di abbandono. Per la prima volta, mi sono visto da “fuori”: ho provato compassione e ho iniziato a prendermi cura di me stesso».
Esce da quella crisi e poi?
«Nei dieci anni ho cambiato diverse volte ruolo. All’inizio ero un ospite in terapia, poi sono diventato uno studente universitario, a Bologna: Muccioli aveva affittato una casa, seguivamo le stesse regole della comunità, e alternavamo lo studio all’assistenza in ospedale per i malati di Aids. Poi succede che dopo cinque anni ho una ricaduta spaventosa e torno a Milano. Ero convinto di esserne uscito, ma in realtà non era cosi. Una ricaduta per la quale sto riflettendo ancora oggi, in cui ha influito anche il cattivo rapporto che avevo con la mia malattia».
Parla dell’Hiv?
«Sì, è stato traumatico. Nell’85 veniamo sottoposti a “un esame di routine”. Non ci viene detto che era per l’Hiv: Muccioli, infatti, voleva capire meglio questo fenomeno, perché dall’America arrivavano notizie sconvolgenti sul tasso di mortalità. I risultati dicono che il 60% degli ospiti è sieropositivo. Io ero tra quelli. All’epoca era una sentenza di morte, quindi Vincenzo decide di gestire lui questa informazione delicata. Temeva che un ragazzo così fragile decidesse di morire tra le calde braccia dell’eroina. Infatti, preferisce non dirmelo. A Sanpa, intanto, più persone entravano e più cresceva la percentuale dei positivi. Io, ignaro di tutto questo, ottengo un permesso per tornare a casa: ne ero uscito definitivamente, avevo ottimi voti, non facevo più casini. Vincenzo quando esco non mi dice nulla, nemmeno di fare attenzione. Torno a Milano e vedo un’amica, con cui ho anche dei rapporti sessuali. Parecchi. Tornando in comunità dico a Vincenzo della mia relazione. Lui, e lo ricordo come se fosse adesso, mi dice con tutta serenità: “Che bello, la voglio conoscere, portala qui!”».
E come viene a scoprire della sua positività?
«Passa un anno, una domenica mi ferma in comunità e mi dice: “Fabio, abbiamo deciso che i sieropositivi non possono assistere i malati in ospedale. Quindi da domani non puoi più andare”. A me crolla il mondo addosso, più di tutto temevo di aver contagiato la mia ragazza. Erano ore terribili: lei è andata subito a fare l’esame e poi passano diversi giorni. Non riuscivo a dormire, l’idea era terrificante. Quel tanto o poco che mi restava da vivere era un inferno, anche solo per aver condannato una persona che amavo. In seguito lei risulta negativa. Ma da quel momento decido di andarmene. Non avevo risentimenti, ma mi dicevo: “Adesso voglio decidere della mia vita e della mia morte”. Torno a Milano».
Lì riprende il suo rapporto con la droga?
«Non voglio trovare alibi: non ero ancora abbastanza forte, sono stati mesi duri. Una ricaduta distruttiva: non cercavo la droga per un piacere o sollievo, ma la cercavo per soffocare e farmi fuori. Poi decido di darmi un’altra chance, e chiedo a Muccioli di lavorare a stretto contatto con lui: accetta chiedendomi di occuparmi delle pubbliche relazioni. Un ruolo importante che mi metteva in mostra. Poi ci arriva addosso una valanga mediatica con la scoperta dell’omicidio di Roberto Maranzano (ex ospite ucciso all’interno della comunità e poi trovato morto in una discarica vicino a Napoli, ndr). Io, che avevo un vissuto all’interno della comunità, pensavo che avessimo commesso degli errori. Dovuti in gran parte all’ingrandirsi di Sanpa: ho visto la prima parte in cui Muccioli si dedicava a ciascuno di noi, sapeva tutto. Quando iniziarono a esserci più di mille ospiti non riuscì, dando compiti a persone poco adeguate. Così, dalla relazione si è passati al controllo. E lì ho capito che il potere può essere, a sua volta, una droga».
L’ARRIVO AL GRUPPO ABELE
Da qualche mese è vicepresidente del Gruppo Abele. Quando ha incontrato don Ciotti e cosa l’ha colpita del suo carisma?
«Ricordo molto bene l’incontro con Luigi. Ero appena arrivato a Torino, vado subito al Gruppo Abele, perché il mondo della droga era la mia specializzazione. Nel colloquio, don Luigi polverizza l’idea che avevo sui sacerdoti, e anche l’idea che io con un sacerdote non avrei avuto nulla a che spartire. Ma di fronte a me trovo una persona che incarna un’idea di vivere la fede che, da non credente quale sono, mi intriga e mi affascina. Lo stesso modo di vivere la fede che ha papa Francesco. La fede come ricerca e non come rifugio. Come apertura incondizionata all’altro, e dunque alla vita. Che riflette in pieno lo spirito del Vangelo non ridotto a dottrina. Questo mi colpisce di don Ciotti… oltre alla sua enorme generosità. Sanpa e Gruppo Abele sono agli antipodi… Da subito ha capito che ero un naufrago, infatti la mia uscita da Sanpa è stata traumatica e angosciante: ero molto scosso, venivo considerato dagli amici come un disertore. Con don Ciotti ho trovato un fratello maggiore, ci conosciamo da 25 anni e da 15 lavoriamo quotidianamente, ho un rapporto simmetrico, paritario. Mentre in Muccioli ho trovato un padre convinto, anche inconsciamente, che quei “suoi” figli fossero una prosecuzione, e quindi li voleva plasmare. Non c’è mai stato nessun problema che Luigi avesse fede e io no. E credo che proprio la dimensione della ricerca ci tiene legati. A me ha dato un senso a quell’inquietudine prima, durante e dopo la droga».
Oggi qual è il lavoro del Gruppo Abele?
«Proviamo a “dare voce a chi non ha voce”, operando in tutti quegli angoli della società che soffrono maggiormente: dalla tossicodipendenza all’emarginazione, fino ai migranti. Tanto più negli ultimi 15 anni, c’è stata una continua erosione del ceto medio. Tante persone sono precipitate, senza alcun paracadute. Tutto questo evidenziato con forza dalla pandemia. Ma non dimentichiamoci che la disperazione c’era anche prima. Per questo l’idea di tornare alla normalità mi fa orrore».
Lei di cosa si occupa?
«Ho la fortuna di non essere l’unico vicepresidente, ma siamo in due (sorride). Uno si occupa delle questioni legali e burocratiche. Mentre io mi occupo dell’ambito culturale, ovvero formazione, informazione ed editoria: imprese sociali “satelliti” ma che seguono le linee culturali del Gruppo. Dall’inizio mi ha colpito la necessità di tenere insieme i servizi d’accoglienza e le riflessioni culturali. Per avere uno sguardo più ampio sulle condizioni che stanno a monte dell’emarginazione».
DROGA: È EMERGENZA EDUCATIVA
Cantelli, il 33,6% degli studenti italiani (circa 870.000 ragazzi tra i 15 e i 19 anni) ha utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale. I giovani cercano la vita nella droga, perché non riescono a trovarla altrove?
«Questa società non si chiede perché un giovane trova la vita nella droga. Se si ponesse questa domanda, entrerebbe in crisi. Credo che la questione di fondo è che ciascuno di noi viene al mondo assetato di infinito. Se tu vieni al mondo e trovi una società che non si cura di questa sete, perché l’ha repressa, vieni distratto dalle tante chimere: il successo, il potere, l’individualismo assoluto. Ma se un giovane con una particolare sensibilità capisce che queste sono solo illusioni, è molto facile che cerchi e trovi nelle droghe il surrogato dell’infinito che va cercando. Scopre che non gli basta più l’ultimo paio di scarpe o altre esche del mercato».
Cosa serve, allora?
«Sembrerà utopico, ma bisogna cercare di dar loro l’infinito che è la ricerca della verità. Ma anche la consapevolezza che, in quanto mortali, noi siamo esseri finiti. Ed è un bene, perché le grandi cose che l’uomo ha fatto nella vita, le ha fatte sapendo di essere di passaggio. Se avessimo l’eternità davanti non avremmo neanche la voglia di muovere un dito: una situazione di “ebetudine”, e non beatitudine. Bisognerebbe insegnare ai ragazzi il sapere della morte. Una società che toglie la morte, infligge la morte. E questo accade anche attraverso il mercato, l’arma più subdola dell’Occidente».
Possiamo parlare, quindi, di emergenza educativa?
«Un’emergenza educativa enorme. E la droga in tutto questo è stata normalizzata. Chi parla di legalizzazione, non capisce che è già in atto una “normalizzazione”, perché il meccanismo del mercato ha la capacità di ridurre tutto a merce. Quello che mi spaventa di più è che per comprare una dose di eroina, oggi, bastano 5 euro: una cifra irrisoria. Ai nostri tempi dovevamo rubare. E se le mafie continuano a guadagnare tanto dalla droga è perché la platea degli acquirenti è diventata vasta. Una platea immensa, ma invisibile: i tossici non rubano, non si vedono per strada a girovagare come zombie. La tossicodipendenza è stata banalizzata, svuotata di significato. Purtroppo credo che per un ragazzo d’oggi uscire dalla droga sia molto più difficile di quanto lo sia stato per me…».
FABIO CANTELLI, OGGI
A marzo uscirà nelle librerie la sua autobiografia “Sanpa, madre amorosa e crudele”. Verrà pubblicata da Giunti, ma c’è stata una “battaglia” tra editori. Si aspettava tutta questa fama?
«Ero convinto che la serie non sarebbe passata inosservata. Hanno fatto un lavoro straordinario, molto rigoroso, senza preconcetti, ma documentando con elementi autentici. Non immaginavo che sarebbe venuta fuori tutta questa reazione. E nemmeno questa attenzione al sottoscritto (sorride). Ma questo per me ha anche dei lati positivi: ricevo lettere e messaggi di persone che mi lasciano senza parole. Dopo aver visto la serie mi scrivono la loro ammirazione, ma soprattutto mi mettono a conoscenza delle cose più intime. Come se loro, nell’espressione della mia inquietudine che permane ancora oggi, riconoscessero la propria. Un’inquietudine per cui erano stati giudicati fragili e inadeguati a certi standard. Allora si sono detti: “È possibile vivere in questo mondo, nonostante questa inquietudine”. Sono cose che mettono i brividi. A qualcuno rispondo anche, molti sono giovani, ma soprattutto donne. Non ci conosciamo, loro mi hanno visto solo attraverso uno schermo, ma è come se ci aspettassimo da sempre».
Non sente il rischio di essere “sventolato” come una bandiera?
«Sì, certo che c’è il rischio. Ho fatto anche io il giornalista (ride). Ci sono persone che ti cercano solo per i propri interessi. A me serve pensare, non voglio avere delle opinioni. La “doxa”, la chiacchiera, è tipica di chi deve dare dei giudizi. Ma la vita è un fenomeno complesso, fatto di sfumature, chiaroscuri, e ci chiede il coraggio di conoscere e non giudicare. La conoscenza è andare nella profondità e cambiare quell’idea che ti eri fatto in un modo istintivo. La mia formazione di studi è filosofica, e non ammette opinioni. Riesco a distinguere “a naso” chi mi cerca perché vuole capire a fondo e chi vuole buttarla in “polemichetta”».
Ha paura di ricadere nella dipendenza?
«Quanto ad alcune dipendenze credo di aver già dato (sorride). Per altre cerco di stare vigile sugli attaccamenti, forme meno evidenti di dipendenza, ma capaci di corroderti l’anima. Penso all’amore possessivo, a certe passioni che diventano totalizzanti al punto di accecarti e farti perdere di vista il resto. E proprio il mercato, inteso come sistema capitalistico, agisce sugli attaccamenti e sulle dipendenze. Ti induce, ti fa vedere l’oggetto del desiderio, e poi quando capisci che è poca roba, ecco che arriva un nuovo oggetto. Così si passa all’attaccamento. E credo che sia questo il passaggio che fa della droga una merce».
Rifarebbe tutto da capo?
«Questa è una domanda a cui non si può rispondere, le cose accadono perché hanno una loro logica interna. L’importante è trasformare tutto in un percorso di vita. Dico comunque di sì, perché ho avuto la fortuna di uscirne e fare qualcosa. Evidentemente avevo bisogno di fare quell’esperienza. Una radicalità che esisteva prima della droga».
Ha fatto pace con il Fabio Cantelli del passato?
«Questa invece è una domanda interessante (sorride). Per me non si tratta di fare pace, ma di accogliersi e conoscersi. Non rinnego nulla del mio passato, anche gli aspetti più dolorosi, inquieti e angoscianti. Quello che sono oggi è frutto di quello che sono stato. Non serve sottoporre certi aspetti di ieri, soprattutto quelli più inquietanti, a una specie di “lifting” o a un “photoshop”. Trovo che sia una cosa terribile, questa contraffazione di sé stessi: dimenticare il proprio passato, perché non si ha il coraggio di fare i conti con la propria vita. Ma il rimorso poi ritorna, e quanto più lo rimuovi più riappare come un fantasma. Bisogna trovare la verità dentro sé stessi. Nel tempio di Apollo i greci scrivevano: “Conosci te stesso”. Questo è il punto, se non ha il coraggio di andare dentro il tuo abisso, del mondo non capirai mai nulla».
Alessandro Venticinque
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