Intervista a Giovanni Ricci, figlio del carabiniere che scortava Aldo Moro
Domenico Ricci (nella foto in alto, con l’onorevole Moro) era appuntato dell’Arma dei Carabinieri, sorrideva sempre e guidava bene. Così bene che aveva il compito di stare al volante della Fiat 130 che scortava l’onorevole Aldo Moro. Anche quel 16 marzo 1978, in via Fani, quando a soli 43 anni perse la vita insieme ad altri quattro uomini della scorta: Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Tutti morti, trucidati dalle pallottole delle Brigate Rosse. In quel drammatico 16 marzo, i terroristi uccisero la scorta e rapirono Moro. Fecero ritrovare il presidente della Democrazia Cristiana 55 giorni dopo, in via Caetani: morto, nel bagagliaio di una Renault 4. Sono trascorsi 45 anni da quegli eventi che cambiarono l’Italia, ma le ferite sono rimaste.
Le stesse ferite di Giovanni Ricci (nella foto a lato), figlio dell’appuntato, che quel 16 marzo aveva 11 anni. Oggi ne ha 56, è cresciuto, ha un figlio. E ci racconta quello che è accaduto in questi anni: anni difficili fatti di dolore, rabbia, rancore, ma anche di perdono e rinascita. Giovanni racconta la sua storia, una storia dentro la Storia (con la “esse” maiuscola), e ci parla di croce e risurrezione. Ovvero: di Quaresima e Pasqua. Anche dopo aver perso suo papà, Domenico Ricci. L’appuntato dei Carabinieri che sorrideva sempre e guidava bene.
Giovanni, chi era Domenico Ricci?
«Mio papà è nato a Staffolo, un piccolo paesino delle Marche in provincia di Ancona, nel 1934. La sua era una famiglia di contadini, ci teneva sempre a ricordarlo. A 20 anni, avendo già un fratello arruolato nell’Arma dei Carabinieri, decide di intraprendere la stessa strada. Dopo un anno di formazione viene mandato a Roma, dove scopre di essere bravissimo a guidare tutti i tipi di veicoli».
Un guidatore provetto.
«Sì, talmente bravo che viene subito inviato a fare dei corsi di guida veloce, e comincia con la radiomobile. Dal ’60 fa le prime sostituzioni nella scorta dell’onorevole Aldo Moro. Poi nel 1963 diventa effettivo, insieme al maresciallo Oreste Leonardi, alla guida della macchina che spostava l’allora segretario della Democrazia Cristiana. Che divenne, a dicembre di quell’anno, presidente del Consiglio».
Amava il suo lavoro.
«Papà, come dicevo, era un ragazzo di campagna che aveva avverato il proprio sogno. Anche se passava tanto tempo lontano da casa, amava la sua vita, sorrideva sempre. Ma non era un eroe, era un uomo semplice che amava e faceva bene il suo lavoro. E io ero orgoglioso che mio padre lavorasse per Aldo Moro. Ricordo che una volta venne a prendermi a scuola, ero alle elementari, con la famosa Fiat 130. Mi sentivo come su un altro pianeta, qualche volta me ne vantavo con i miei compagni… E ricordo che papà mi rimproverava: “Mi raccomando, Gianni, non ti devi mai vantare di queste cose” (sorride). Questo era Domenico Ricci».
E l’onorevole Moro?
«Papà girava l’Italia e il mondo con Aldo Moro, ci raccontava sempre dell’onorevole e dello splendido uomo che era. In una delle rare domeniche libere, in una estate di metà Anni 70, ci portò a Terracina e ce lo fece conoscere. Io e mio fratello lo incontrammo sulla spiaggia. C’era un sacco di gente, faceva caldissimo, e lui camminava, anche sulla spiaggia, con giacca, cravatta e scarpe. Mi incuriosì molto… ma c’era una spiegazione, che ho capito con gli anni: Moro, uomo dello Stato e delle istituzioni, voleva rappresentarle anche se era in vacanza, sotto l’ombrellone. Quest’uomo, simpatico e con un sorriso molto bello, ci accarezzò e ci disse: “Mi raccomando, fate i bravi. Come lo è vostro padre”. Fu un momento, un attimo indelebile che porterò sempre nel cuore».
Poi arriva quel 16 marzo 1978.
«Io ero in prima media, avevo quasi 12 anni, li avrei compiuti un mese dopo. A scuola, in quel periodo, c’erano tantissimi studenti e poche classi, così facevamo i turni. Quel 16 maggio 1978, un giovedì, al mattino ero a casa, sarei andato a scuola alle 13. Verso le 9.30 squilla il telefono: era una amica di mamma che chiedeva se papà era di servizio. Di lì a poco molti vicini di casa iniziarono a suonare alla porta. Mia madre allora accese la radio e ascoltammo il servizio del Gr2 che diceva del rapimento di Moro e dell’uccisione della scorta. Tra le lacrime e il dolore, però, c’era una speranza, perché parlavano di un ferito».
Il vicebrigadiere Francesco Zizzi?
«Sì, ricoverato al Gemelli… ma non ce la fa neanche lui. Passa qualche ora, accendiamo la televisione e c’è un servizio del Tg2. Vediamo le immagini della 130 e il corpo di mio papà: lo riconosco perché da sotto il lenzuolo spunta il suo orologio Zenith. Era l’unico regalo che si era concesso, ci teneva tanto».
E i giorni seguenti?
«Due giorni dopo si celebrarono i funerali di Stato nella Basilica di San Lorenzo al Verano. Ricordo le persone, le bare con il tricolore, le bandiere bianche. E mia mamma seduta accanto alla bara di mio papà. Qualche giorno più tardi, ci fu la cerimonia funebre anche a Staffolo, seguita dalla tumulazione al camposanto. Dopo circa una settimana ci siamo ritrovati a casa soli, in un silenzio assurdo, rincuorati soltanto dalle visite di amici e parenti. Abbiamo continuato a vivere i 55 giorni del rapimento di Moro nell’angoscia e nella speranza di poterlo vedere libero. Sarebbe stata una sorta di “riscatto” per l’uomo squisito che era, e per chi aveva dato la propria vita per difenderlo».
Lei si è sentito tradito dallo Stato?
«No, tradito no. Sicuramente ci fu una inefficacia dello Stato. L’Italia venne colta impreparata: sappiamo che sono state le Brigate Rosse, ma ci sono ancora dei dubbi, delle zone d’ombra. L’unica certezza è che la giustizia ha fatto il suo corso: lo testimoniano gli arresti, i processi e i gradi di giudizio. Spiace che si sia voluto mettere una pietra tombale su quegli anni, pur di non arrivare a giudicare il comportamento morale della classe politica di allora che decise unitariamente, escluso qualcuno, di non trattare. Quando sapevano benissimo che si era trattato per tanti altri… Sono stati anni difficili non solo per me, ma per tutta la mia generazione: ci hanno sbattuto la morte in faccia e siamo diventati adulti in una notte».
Provava rabbia?
«Provavo rancore e odio nei confronti di coloro che mi avevano fatto del male. Tornando a quei giorni, l’edizione straordinaria di “la Repubblica” titolava: “Moro rapito, cinque agenti della scorta uccisi”. E in seconda pagina c’era la foto di mio padre, senza lenzuolo, pieno di sangue, con i sette proiettili che lo hanno colpito tra la testa e il collo. Ero un ragazzino, vedere quella immagine mi ha segnato: sentivo la rabbia crescere dentro. Poi negli anni successivi ho seguito i processi, ho visto le facce sorridenti degli imputati, le urla dalle “gabbie”. E la voglia di vendicarsi continuava a crescere».
Fino a quando?
«Fino a quando nasce mio figlio, nel 1996. Lui porta il nome del nonno, Domenico Ricci. Quando è nato mi sono detto: “Se domani andasse a scuola e incontrasse il figlio di un terrorista, cosa dovrebbe fare? Odiarlo come faccio io?”. No, mi sono risposto, l’odio è come rimanere incagliato in una rete da pesca: più cerchi di liberarti, più ti stringe e ti porta a fondo. Quella rabbia mi stava trascinando nel baratro. Poi la mia vita è cambiata».
Lei ha incontrato anche alcuni brigatisti di via Fani.
«Sì, ma è stato un percorso lungo. Sono rimasto in contatto fraternamente con Agnese Moro (figlia dell’onorevole Aldo Moro, ndr). Era il 2003, e un giorno incontrandola mi ha raccontato del progetto sulla giustizia riparativa: l’esperienza di un gruppo di lavoro che cercava di far riconciliare le vittime con i carnefici. Dopo un cammino durato quasi dieci anni, nel 2012 ho incontrato i terroristi che hanno ucciso mio papà: Valerio Morucci, che gli ha sparato, Franco Bonisoli e Adriana Faranda».
Cosa ricorda?
«Erano tre persone libere, che ormai avevano espiato le proprie pene, e hanno voluto incontrarmi per chiedere perdono. Ho visto tre persone che mi guardavano in lacrime, con il cuore. Bonisoli mi disse: “Io non posso tornare indietro e riportarti tuo padre. Ma farò qualsiasi cosa tu voglia…”. Mentre ascoltavo, mi sono sentito liberato: la mia croce è scivolata via e la mia voglia di vendetta è sparita. Loro, i terroristi, credo la portino ancora quella croce. Non possono rinnegare quel passato: possono dissociarsi, ma non possono dimenticarlo. Nessuno di noi, sia vittime sia carnefici, ha fatto questo percorso per dimenticare il passato. Anzi, il passato è lì, come ferite sulla nostra pelle. Però queste ferite hanno smesso di sanguinare».
Si è mai “arrabbiato” con Dio?
«No, mai. Ricordo la preghiera che ho rivolto a Dio, quel giorno del 1978: gli chiedevo di salvare papà. Così non è stato, ma non mi sono mai arrabbiato con Lui. La rabbia era nei confronti degli uomini che avevano permesso tutto questo dolore. Io credo in Dio. La fede mi è stata di grande aiuto, penso sia stata una mano del Signore sulla mia spalla ad aiutarmi in questo cambiamento. Mi ha fatto vedere la luce della vera vita. Non quella dell’odio, ma del ricordo, dell’amore e della pace. Mi sono riconciliato con il passato. Tanti altri dovrebbero farlo».
Una Quaresima di risurrezione.
«Lo è davvero, perché non guardo più a quell’attimo di morte che ha segnato la mia vita per tanti, troppi anni. Non guardo più quel 16 marzo e la fotografia su quel giornale. Adesso ho ripreso in mano le fotografie dell’album di famiglia e le sfoglio con gioia. Ho ritrovato mio padre, i suoi sorrisi. E lo vivo ogni giorno. Ho ritrovato Domenico Ricci nella sua intera esistenza, non l’eroe di via Fani. Quello lo lascio alla memoria storica: a me basta mio papà».
Sono trascorsi 45 anni. Nel commando delle Brigate Rosse c’era anche Alessio Casimirri, figlio del direttore della Sala stampa vaticana durante tre pontefici, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Casimirri, ancora oggi latitante in Nicaragua, contattato anni dopo da un giornalista, rispose: «Mi chiede di via Fani? Ma ancora!?».
«Casimirri non ha scontato nemmeno un giorno di pena, è latitante da 45 anni. Dice così perché non ha mai avuto il coraggio di affrontare gli errori della propria vita. Conosco dei brigatisti che per affrontare i propri sbagli sono rientrati dalla Francia e hanno avuto il coraggio di fare i conti con il passato. Lui vuole dimenticare. Ed è l’opposto di ciò che vogliamo fare con la “Associazione Domenico Ricci per la memoria dei Caduti di via Fani“. Sono orgoglioso di esserne presidente. Vogliamo ricordare, non dimenticare, perché è doveroso nei confronti delle nuove generazioni. Dagli errori di quegli anni bisogna imparare e insegnare. Dalla conoscenza individuale dei fatti di quel periodo può nascere una coscienza collettiva molto forte. Lo dobbiamo ai ragazzi di oggi, che purtroppo fanno della violenza un modo di vivere quotidiano, anche sui social».
Se davanti a lei ci fosse suo padre?
«Lo bacerei. Lo abbraccerei. Poi lo prenderei sotto braccio e gli direi: “Vieni con me, papà, che devo raccontarti tante cose…” (si ferma per la commozione)».
Cosa le manca di più?
«Il suo sorriso. E poi mi manca il genitore dell’adolescenza, che ti dà qualche consiglio, che ti viene a vedere mentre giochi a pallone. Ricordo bene l’ultima volta che vidi mio papà…».
Che cosa ricorda?
«Era il 15 marzo, avevo giocato una partita a calcetto in un campo di periferia vicino a dove abitavamo. Lui era tornato a casa verso le 23, nemmeno troppo tardi per i suoi orari. Viene da me e mi dice: “Come è andata la partita oggi?”. E io: “Male, abbiamo perso. Purtroppo ce l’ho messa tutta, ma non sono così bravo”. Lui sorridendo mi risponde: “Non ti preoccupare, Gianni. Vedrai che nella vita di partite ne vincerai tante altre…”. Ed è stato così (si commuove)».
Alessandro Venticinque