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Critica della ragione manageriale (e della consulenza)

La recensione – di Fabrizio Casazza

Da Edizioni Messaggero Padova il nuovo libro dell’economista Luigino Bruni

«L’ipotesi di fondo che ispira questo saggio è semplice: l’economia ha un bisogno vitale di virtù diverse da quelle economiche, perché le stesse virtù aziendali richiedono valori che le imprese non sono capaci di generare» (p. 6). In tale ottima sintesi possiamo racchiudere il presupposto e il senso di Critica della ragione manageriale (e della consulenza), pubblicato da Edizioni Messaggero Padova (pp 112, euro 14).

L’autore, Luigino Bruni, Ordinario di economia politica presso l’Università Lumsa di Roma e consultore presso il Dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita, in questo volume riprende e amplia i temi trattati in alcuni editoriali apparsi l’anno scorso sul quotidiano Avvenire.

Il ragionamento prende le mosse dalla constatazione della carenza di gratuità, che non va identificata con il gratis, ma va intesa come «liberazione dal registro del calcolo, della convenienza, del ritorno dell’investimento» (p. 14). L’assenza della logica di gratuità ha portato a un deterioramento della prassi: «mezzo secolo fa a guidare le imprese erano gli imprenditori, poi sono arrivati i manager, infine i consulenti» (p. 32).

Proprio su questi ultimi si concentra buona parte del libro, che si conclude con una critica all’idea di meritocrazia, ritenuta «il primo dogma della nuova religione del nostro tempo, soprattutto della grande impresa» (p. 91). Il problema del capitalismo contemporaneo consiste nell’«estensione della meritocrazia a ogni ambito della vita civile, la cui prima e più rilevante conseguenza è la legittimazione etica della diseguaglianza, che da male da combattere sta diventando un valore da diffondere e promuovere» (p. 96).

Insomma questo volume aiuta a riflettere e progettare un nuovo modello economico che ponga al centro la dignità della persona in vista del bene comune e nella prospettiva della sussidiarietà. Quest’ultima dovrebbe diventare anche un principio di gestione manageriale: «lasciare le decisioni a chi si trova vicino al problema da risolvere, quindi ai lavoratori, e il manager, che è più distante dal problema, interviene soltanto quando il gruppo di lavoro non riesce o chiede aiuto-sussidio» (p. 41). Un bel cambio di struttura rispetto allo schema top-down, oggi ritenuto sempre più carente: occorre passare dalla concezione dei dipendenti che eseguono quasi ciecamente gli ordini superiori a renderli coprotagonisti della vita aziendale. Potrebbe essere utile verificare gli spazi di applicazione di questo modello alla società e, perché no?, alla comunità ecclesiale.

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