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«Per questo lavoro serve empatia»

Intervista ad Alberto Gandaglia, soccorritore della Croce Rossa di Moretta

Si può a 21 anni essere studenti universitari e lavorare alla Croce Rossa? La risposta è sì, e Alberto Gandaglia ne è l’esempio. Studia all’Università di Torino ma da gennaio spende anche molto del suo tempo nella sede della Croce Rossa, comitato di Moretta (CN). Gli abbiamo chiesto come viva la sua esperienza, in particolare dopo l’emergenza sanitaria.

Alberto, quanto ti impegnano settimanalmente i turni in Croce Rossa?
«Da contratto devo svolgere 25 ore settimanali fisse, ma spesso ne faccio di più da volontario. In media, quindi, giungo a 40-45 ore a settimana. Tuttavia, alcuni mesi fa, in piena emergenza Covid-19, sono arrivato a svolgere addirittura 58 ore di lavoro in sette giorni».

Quali sono le tue mansioni? Come si svolgono?
«Il mio lavoro si svolge in gran parte sui mezzi di soccorso di base (Msb), visto che sui mezzi di soccorso avanzato (medicalizzate o Msa) lavorano, generalmente, un medico, un infermiere e altri due membri dell’equipaggio, ovvero autista e barelliere. Principalmente, ho due compiti svolti con il team che mi viene assegnato: effettuare uscite di emergenza e provvedere ai servizi su prenotazione. In genere i servizi prenotabili, come un trasporto di un anziano che deve effettuare una visita, vengono fissati telefonicamente, chiamando da privati direttamente sul numero telefonico della sede. In alternativa, per i servizi di emergenza, ricevuta la chiamata al 118 veniamo contattati direttamente dalla centrale operativa per eseguire una prestazione. In genere si tratta di un paziente che necessita di un pronto intervento».

Quali emozioni sono prevalenti durante un intervento di emergenza e quali sono le procedure?
«Subito dopo la chiamata che riceviamo da chi richiede il nostro intervento, la prima sensazione che provo è l’adrenalina. Poi, penso a cosa potrà capitare, a cosa vedrò. Nei casi in cui non ci sono infetti di Covid-19, indossiamo guanti, mascherina e indumenti antinfortunistici durante il nostro intervento. Invece, in caso di un possibile positivo (o infettivo) o di trasporto di malato accertato di coronavirus, utilizziamo gli indumenti adatti che ci fornisce la sede. Fortunatamente, il nostro presidente si era mosso in maniera tempestiva e aveva provveduto a procurare tali presidi fin dall’inizio dell’emergenza. In centrale 118 per tutti i tipi di chiamata ci sono sempre medici addestrati, sia dal punto di vista teorico che dalla pratica svolta in ambulanza. Si prendono loro carico della chiamata del paziente, ci chiamano e successivamente ci forniscono un codice di intervento costituito da un colore, un numero che indica la patologia del paziente e da una lettera dell’alfabeto Icao, che è un linguaggio internazionale dei soccorritori. Arrivati sul posto, la prima regola è osservare l’ambiente circostante, l’evento in corso e i vari pericoli per noi e per il paziente. Poi si misura la temperatura di quest’ultimo e si provvede a far fronte alla situazione: se il caso è grave, proviamo a stabilizzare il paziente e aspettiamo le ambulanze medicalizzate».

Com’è stato l’inizio della tua esperienza: avevi paura?
«Ricordo che appena entrato in sede sono stato subito chiamato a far parte di un intervento per un incedente stradale. Non un esordio molto tranquillizzante, quindi! Inizialmente è normale provare paura; proprio per questo all’inizio le giovani reclute com’ero io vengono accompagnati da volontari più anziani per 100 ore, definite proprio “di affiancamento”. Con il passare del tempo poi si acquisisce più sicurezza e il sentimento di paura si affievolisce, anche se la tensione resta sempre altissima. Ma fortunatamente l’ambiente in cui lavoro è molto positivo e siamo molto uniti».

Cosa ti ha spinto a scegliere proprio questa professione? Qual è l’ingrediente speciale per fare al meglio il tuo mestiere?
«In realtà l’idea mi venne dopo una proposta di un mio amico che aveva già svolto questa professione e me ne aveva parlato bene. Poi io ho una forte vocazione di aiutare gli altri, e in questo lavoro il fine è proprio aiutare il prossimo: tento di fare di tutto per fornirti il servizio che necessiti. Viene da riflettere sulla fatica che fa l’uomo a essere autosufficiente e a non avere bisogno di aiuto. Credo che alla base di questo lavoro ci sia l’empatia: questa è la qualità migliore che spinge ad aiutare l’altro mettendoci nei suoi panni, e penso sia molto utile non solo per il mio lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni per chiunque».

Marco Lovisolo

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