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Uscire dalla droga non basta, la vita ha bisogno di senso

Intervista a Silvio Cattarina di “L’Imprevisto”

Da qualche settimana abbiamo iniziato la nostra inchiesta sulla droga: l’abbiamo chiamata “L’elefante nella stanza”. Proprio perché ci sembra che di questo grande elefante (l’emergenza droga, soprattutto tra i più giovani), che balzerebbe subito all’occhio dentro una stanza (piccola e affollata), in pochi, pochissimi, ne parlino. Tra questi c’è sicuramente Silvio Cattarina (nella foto qui sopra) che da anni tocca con mano questo “elefante”, gestendo diverse comunità di recupero per ragazzi tossicodipendenti. «Abito a Pesaro ma sono trentino di origine. Ho avuto la fortuna di conoscere un noto sacerdote pesarese, don Gianfranco Gaudiano, e insieme a lui abbiamo messo in piedi una delle primissime comunità. Era a fine Anni 70, eravamo dei pionieri…» ci racconta in videochiamata. Tra le diverse strutture terapeutiche fondate da Silvio, c’è anche “L’Imprevisto” nata proprio a Pesaro nel 1996. Qui tantissimi ragazzi chiedono un aiuto per poter uscire da quel vortice buio e profondo che è la dipendenza. Tanti cercano la luce, per poter curare le ferite del passato e costruire un futuro migliore. Proprio come Carlo, 28enne di Savigliano, che dal 2019 è entrato nella Comunità Cenacolo di Montecastello: vi stiamo raccontando la sua storia, e la potrete trovare anche sul nostro sito. Abbiamo parlato di droga, ma Silvio racconta che non è l’unico problema per chi si è fatto travolgere dalla dipendenza. C’è molto di più, e ce lo spiega durante la nostra chiacchierata…

Silvio, cosa manca ai ragazzi che arrivano in comunità?
«Più nessuno, oggi come oggi, dice ai ragazzi che nella vita c’è una presenza, c’è un significato. La realtà è piena di incontri, di possibilità, è sovrabbondante di grazie. Ma non testimoniandoli più ai giovani, loro credono che la realtà sia un grande caos, o casino come dicono spesso. Credono di essere venuti al mondo inutilmente, vanamente. Quindi diventa facile non impegnarsi, non credere in nulla. Ma non è così. La vera grande missione è dire ai ragazzi che la vita non è questa, bisogna ripartire dal valore della persona. Il problema della droga, quindi, è esistenziale, educativo e di senso. Tantissimi giovani smarrendo proprio questo senso della vita, cioè un motivo vero e grande per cui vivere, si lasciano andare a questo fenomeno così devastante, che è la dipendenza. Ma manca anche altro…».

Per esempio?
«Sono convinti che la vita sia una questione di capacità, riuscita e successo. In modo molto scherzoso dico ai miei ragazzi che, se la pensano davvero così, possono anche continuare a drogarsi (sorride). Il punto nella vita è saper chiedere tutto a Dio: se chiediamo, tutti i doni ci possono essere dati. Le nostre comunità, infatti, vogliono far esprimere ciò che questi ragazzi hanno nel cuore. Un ragazzo napoletano che stavamo seguendo un giorno mi ha detto: “Silvio, io l’ho capito che cosa fa soffrire nella vita. Avere una morosa che ami tantissimo e non riesci a dirglielo”. Sono rimasto a bocca aperta da questa frase, perché aveva capito tutto».

La tua comunità prende il nome da una celebre poesia di Montale (“Prima del viaggio”) che dice: «Un imprevisto è la sola speranza». Serve un imprevisto, quindi, per far ritrovare il senso a chi è finito in una strada sbagliata?
«Serve per forza un grande incontro nella nostra vita. Ci sono due grandi presenze, imprevisti. Il primo è l’importanza della persona. A volte chiedo ai “miei” ragazzi: “Dimmi qual è la cosa più preziosa che c’è in tutto il mondo?”. E nessuno di loro dice mai: “Io, io sono la più preziosa”. Nessuno ha questo ardore, ognuno di noi dovrebbe dirlo».

La seconda?
«È la vita, perché il bene è sempre più grande di qualsiasi altro male. I ragazzi pensano che la cifra della vita sia il male, e che proprio il male sia determinate e sovrabbondante. Ma ciò che esiste veramente ed è maggioritario, anche in questo mondo difficile, è il bene. Questo sempre. Anche se nella loro vita c’è tanta sofferenza e dolore, anche se sono nati in zone difficili, noi cerchiamo di far scoprire questo bene».

I giovani si avvicinano sempre più presto al mondo delle droghe. Perché si è arrivati a questo punto? C’è un’emergenza educativa?
«Si è arrivati a questo punto per tantissime ragioni, ma ce n’è una che le accomuna: questa grande incapacità degli adulti nel tramettere dei valori, trasmettere la bellezza della vita. Questa difficoltà tocca tutti: la scuola, la chiesa, le istituzioni, gli educatori… È mancato far capire ai giovani che vale la pena vivere, che vivere è bello, sempre. Molti dei miei ragazzi mi dicono: “Che bella questa esperienza che abbiamo vissuto qui con voi educatori”. Io rispondo: “No, voi dovete dire che tutta la vita è stata bella, anche quando tutto sembrava crollare”. Questo crinale negativo, di depressione generale, di sconquassamento, deriva dal fatto che i giovani non vedono più degli adulti testimoni di un’energia diversa. Perché, come si diventa grandi? Solo se tu vedi davanti delle persone che ti affascinano e ti fanno dire: “Vorrei essere anche io così”».

Come riuscite a portare avanti tutto questo fardello?
«Mi sostiene un’esperienza cristiana che mi aiuta giorno per giorno a rinnovare questa speranza e questo “sì” alla vita. Siamo un piccolo gruppo unito che si conforta tanto, anche noi adulti abbiamo sempre bisogno di abbeverarci a fonti vere. Ma siamo anche una comunità molto rigida. Appena entrano da noi togliamo ai ragazzi i cellulari, non possono colloquiare e vedere le persone esterne. Ma la cosa che più li fa arrabbiare è quando si dice loro: “Dovete volervi bene, dovete sostenervi a vicenda”. Ma molti non capiscono, perché sono cresciuti con questa frase: “Io sono solo, e devo cavarmela con le mie forze”. Questo si chiama nuovo paganesimo (sorride). Invece è possibile amarsi, volersi bene, sostenersi a vicenda. Adesso si dà per scontato che questo non sia possibile. Ma ricordiamoci che nessuno di noi è il suo passato, l’errore che abbiamo fatto o il male che abbiamo ricevuto. No, la persona è sempre di più, giorno dopo giorno. E noi dobbiamo proprio testimoniare questa rinascita».

Siete il loro esempio…
«Io dico sempre ai ragazzi: “Non guardate noi, ma guardate dove noi guardiamo”. E questo è molto più interessante. Loro ci dicono: “Quanto bene ci volete qui in comunità”. Io rispondo: “Non siete il mio primo interesse, non siete quelli a cui voglio più bene. Voglio più bene alla vita, a Dio. Se voglio essere utile per voi, lo voglio perché me lo chiede la vita”. E loro rimangono tutti in silenzio».

Secondo te, oggi servono solo le campagne di sensibilizzazione oppure manca qualcosa?
«C’è bisogno di continuare a fare queste campagne di prevenzione. Vado molto nelle scuole a parlare con alcuni ragazzi che ce l’hanno fatta, la testimonianza diretta ha sempre un grande valore. Il problema non è solo uscire dalle sostanze, mi sembra davvero poco ridurre tutto alla dipendenza. Bisogna incontrare e scoprire qualcosa di molto più grande, come qualcuno che venendoci incontro ci portasse ogni sorta di dono, di possibilità, di forza. Uscire dalle sostanze, ma rimanere con un cuore povero vorrebbe dire rifare tutto da capo. La vera questione non è la droga in sé, ma servirebbero più testimonianze di vita e coraggio».

Senza fede tutto questo è possibile?
«Io penso di sì, perché il desiderio dell’uomo è avere una vita di senso. Dopo, la fede viene d’impeto, come un dono, come un bel mattino. È possibile sempre e per tutti, perché il cuore dell’uomo conosce questo grido».

Che cosa diresti a due genitori che scoprono il loro figlio che fa uso di sostanze?
«Ci si deve arrabbiare, dire che non è bene e non serve. Non cadere sul terreno di gioco, chiedendosi se serve o fa male. No, non deve succedere. E poi se la cosa è grave bisogna farsi aiutare dagli esperti. Così come un ragazzo non sa esprimere il suo amore verso una ragazza, anche noi adulti non dobbiamo avere timore di chiedere aiuto. La vera difficoltà non è il problema che abbiamo, ma è che non sappiamo come affrontarlo, allora ci nascondiamo perché non abbiamo più le capacità per affrontare la sconfitta e il fallimento. Bisogna aiutarsi, perché la vera prigione è quella del nostro cuore. Dobbiamo essere persone ricche di umanità, poi la giusta strada la si trova sempre. Ne sono più che sicuro!».

Alessandro Venticinque

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