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Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, legge la sua lettera durante i funerali per la strage di Capaci. Al suo fianco, don Cesare Rattoballi, cugino del marito.

Fino a che punto è giusto perdonare?

Intervista a don Cesare Rattoballi, amico e confessore di Paolo Borsellino

È un lunedì mattina di fine gennaio quando riusciamo a metterci in contatto con don Cesare Rattoballi, 65 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, quartiere nella periferia di Palermo.

Quella che il sacerdote siciliano ci racconta, al telefono, è una testimonianza profonda, umana e di fede. «Dico sempre che la mia vita è stata attraversata, continuamente, da diversi fatti avvenuti a Palermo. Fatti tragici, di mafia». Ed è proprio così. La storia di don Cesare si interseca, anche e soprattutto, con le stragi mafiose del 1992 a Capaci e in via D’Amelio. Nella prima, il 23 maggio ai danni del giudice Giovanni Falcone, ha perso la vita suo cugino Vito Schifani, uno degli agenti di scorta. Nella seconda, il 19 luglio, a saltare in aria, con la scorta, è stato il suo amico Paolo Borsellino. Il volto di don Cesare lo ricorderete: era accanto alla vedova Schifani, Rosaria Costa, nel giorno dei funerali per la strage di Capaci. Era con lei all’ambone, per sorreggerla e aiutarla, durante la lettura della commovente lettera in cui supplicava i mafiosi di chiedere perdono e di mettersi in ginocchio. Di don Cesare, oltre al volto, adesso conosciamo anche la voce. Che a distanza di oltre 30 anni è commossa. Ci parla di dolore. Ma anche di speranza, di umanità. Di una fede, fatta di gesti veri e concreti. E poi, sempre quella voce, ci parla di perdono. Anche se difficile e incomprensibile ai nostri occhi e al nostro cuore. «Dimmi tu da dove vuoi cominciare…» dice don Cesare, sorridendo.

Don Cesare, cominciamo dal giudice Borsellino. Quando lo ha conosciuto?

«Io e Paolo siamo amici di vecchia data. Vivevamo nello stesso quartiere e frequentavamo la stessa parrocchia, dove maturai la mia vocazione. Paolo aveva casa proprio lì, dietro alla nostra chiesa. Poi il nostro rapporto si rafforzò più avanti, dopo la strage di Capaci: nei suoi ultimi 57 giorni ebbi una fitta corrispondenza con il giudice, ma anche con Rosaria Costa, moglie di mio cugino».

Cosa ricorda di lui?

«Di Paolo ricordo la sua umanità, meravigliosa. Era un uomo davvero affabile, coinvolgente, disponibile. Aveva una capacità empatica con chiunque incontrasse. Era anche scherzoso. E poi, soprattutto, era un uomo di fede. Lui quando poteva, anche nei giorni feriali, andava a Messa. Vi posso raccontare un aneddoto?».

Certo.

«Gli uomini di scorta mi dissero questo. Per svolgere delle indagini o per interrogare qualcuno fuori dalla sua città o dalla Sicilia, e capitava che fosse di domenica, Borsellino chiedeva loro di andare a Messa. E la scorta cercava di convincerlo: “Ma no, dottore, lasci stare. Oggi ci riposiamo”. E lui, fermo, rispondeva: “No, io ho un impegno. Mi aspetta…”. Paolo, come sua mamma e la sorella Rita, aveva un rapporto profondo con la Messa e con l’Eucarestia. Si confessava spesso per vivere una vita interiore, spirituale. Anche perché voleva essere un uomo integerrimo».

E lo era sempre.

«Agnese, sua moglie, più una volta mi raccontò di alcuni episodi durante ricevimenti o cene a cui erano stati invitati. Capitava che Paolo, vedendo uomini o persone che non gli piacevano, perché li sapeva invischiati con la mafia o indagati, dicesse alla moglie: “Andiamo via”. E Agnese: “Ma come? Siamo appena arrivati, adesso comincia la cena”. Il giudice si alzava e andava, senza cambiare idea. È un piccolo esempio, ma che dice tanto della sua integrità morale».

Diceva, prima, di una grande umanità del giudice. Ricorda qualche episodio?

«Lui si affacciava dal balcone di casa, e da sopra vedeva gli uomini di scorta che, sotto, facevano la guardia al portone, tutto l’anno, con qualsiasi temperatura climatica. Capitava, durante la giornata, che gli dicesse: “Sto scendendo…”. E portava loro delle bevande, un tè caldo, biscotti o dolcetti per tutti. Ripeto, gesti semplici e concreti, ma di grande umanità».

Una umanità che era davanti agli occhi di tutti.

«Sì, e senza distinzioni. Una volta Paolo mi raccontò di un pentito mafioso che, durante un interrogatorio, gli disse: “Sa dottore, io dovevo ucciderla… Adesso l’ho conosciuta, e sono contento di non averlo fatto, perché è una persona bellissima”. E poi: “Ma chi glielo fa fare di essere un magistrato?”. Paolo rispose: “Vedi, io credo nella verità e nella giustizia, perché con quei valori il mio cuore è libero”. Il pentito rimase senza parole».

Tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio passarono solo 57 giorni. Cosa si ricorda?

«Ci siamo incontrati tantissime volte in quei 57 giorni. Sino a qualche giorno prima di domenica 19 luglio, il giorno dell’attentato. Lo ricordo ancora bene quel venerdì, nel suo studio alla Procura di Palermo… Alla fine del nostro colloquio, mentre mi stavo per alzare, mi disse: “Non te ne andare, ho bisogno di confessarmi. Mi devo preparare…”. Mi ha chiesto l’assoluzione dei peccati, facendomi capire: “Non so quando mi ammazzeranno. Ma quando sarà la mia ora, voglio essere preparato. In Grazia di Dio”. E questo dice dello spessore della sua fede».

Andava incontro al suo destino.

«Aveva saputo da poco che era arrivato il tritolo per lui, e ripeteva: “Non so quando, non so quando…”. Ma soprattutto era molto preoccupato per gli uomini di scorta. Se doveva accadergli qualcosa, non avrebbe mai voluto che i suoi uomini fossero coinvolti. Purtroppo, però, sappiamo tutti quello che è accaduto in via D’Amelio. Una strage terribile (si ferma)».

Parliamo del funerale di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli uomini della scorta.

«Quando è stata fatta la camera ardente al Tribunale di Palermo, per la strage di Capaci, c’erano tante persone a piangere le cinque vittime. C’ero anche io, con Rosaria e ovviamente Paolo. Ricordo un’immagine di quella mattina, durante il trasferimento che ci fu dalla camera ardente al Pantheon di San Domenico, dove furono celebrati i funerali. Ce l’ho stampata, come se fosse adesso (si ferma). Paolo che prende sottobraccio Rosaria la sorregge e accompagna in quel momento così particolare… Vedete, bastano questi episodi per raccontare Borsellino. Sono gesti concreti, che non hanno bisogno di parole. Esprimono la pienezza e l’umanità di quest’uomo».

Suo cugino Vito Schifani, invece?

«Era un giovane con tantissimi interessi. Un atleta, amante dei motori. Aveva anche il brevetto di volo. Mio cugino era pieno di passioni e molto ingegnoso (sorride). Aveva intrapreso questo percorso con la divisa proprio per diventare pilota degli elicotteri della Polizia di Stato. Il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, non doveva nemmeno essere in servizio: ha sostituito un collega che non poteva esserci. Ma la sua vita è finita così (prende fiato)… Era sposato e innamorato di sua moglie, Rosaria. Avevano appena avuto un bambino che, al momento della strage, aveva solo quattro mesi. Antonino, si chiamava. Oggi, quel bambino, è cresciuto ed è diventato capitano della Guardia di Finanza. Ha scelto di continuare sull’esempio del padre e dei giudici Falcone e Borsellino».

La sua vita e la sua fede come sono cambiate dopo quei fatti?

«Come dicevamo prima, è come se la mia vita fosse stata attraversata dai tanti fatti, mafiosi e cruenti, di questa città. Ho avuto l’opportunità di conoscere uomini e donne favolose. Ma c’è un episodio che mi ha fatto capire di più…».

Ce lo racconta?

«Sono stato sempre impegnato con i giovani e gli scout. Negli anni delle stragi, tra l’altro, ero anche assistente regionale dell’Agesci (Associazione guide e scout cattolici italiani, ndr). A un mese dalla strage di Capaci, nel giugno del 1992, abbiamo organizzato una fiaccolata, alla chiesa di San Domenico. C’erano Rita, la sorella di Falcone, i familiari della scorta e 30 mila ragazzi, provenienti da tutta Italia. Immensi. Borsellino fece un discorso meraviglioso, dicendo che erano morti per noi e avremmo dovuto continuare la loro opera. Capì che occorreva partire da lì: in quei ragazzi e nelle parole di Paolo c’era speranza. Dopo quei fatti, ancora oggi, continuo a portare la loro testimonianza e a svolgere il mio Ministero presbiterale. Con un impegno sempre rivolto alla legalità».

Veniamo alla notizia delle ultime settimane: l’arresto di Matteo Messina Denaro.

«Apre uno scenario incredibile. Perché quest’uomo pare sia stato uno degli ideatori delle stragi. È depositario di tante notizie, segreti, documenti, affari. Lo definiscono l’imprenditore della mafia. Il fatto che sia stato assicurato alla giustizia deve farci molto onore. Lo Stato vince sempre. Anche se è lento, certe volte. Ma arriva a far chiarezza, arriva ad assicurare alla giustizia questi uomini così terribili. E lui lo è: ha ucciso innocenti, bambini…».

Rosaria, in quella lettera bellissima, disse: «Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio…».

«E non è mai avvenuto. Mai qualcuno ha scritto o detto a Rosaria: “Sono pentito di quello che è successo. Scusa”. Mai, nessuno».

E noi, oggi, di fronte a Matteo Messina Denaro, da cristiani, possiamo perdonare ciò che ha fatto?

«Può essere perdonato solo se parla, se chiarisce, se chiede perdono, se si inginocchia. Se scrive alle famiglie che ha ferito. E ne avrebbe di cose da dire. Ma se non accade questo purtroppo come si può dare il perdono cristiano a Matteo Messina Denaro? Deve fare dei gesti concreti. Dopo 30 anni di latitanza, lo deve a tutti noi. Senza un suo passo non può esserci perdono. “Va’ e non peccare più” dice Gesù Cristo. Ma il boss ha continuato a peccare…».

Se lo avesse davanti, cosa gli direbbe?

«Non sono io a dover giudicare Matteo Messina Denaro. Sarà Dio a giudicarlo. Una cosa, gli direi: “Guarda che hai fatto tanto male, e quello stesso male ti ucciderà. Se ti penti e chiarisci questo dolore che hai causato, allora ti sarà data clemenza”».

A suo cugino Vito, a Falcone e a Borsellino, alle altre vittime cosa si sente di dire?

«Che la verità viene sempre a galla, ci sono dei tempi, anche lunghi, ma la giustizia arriva. Sempre. La loro morte è un seme che ha portato frutto. Quindi li ringrazio per aver dato la loro vita per me e per tutti gli italiani. Sono degli eroi che hanno creduto nella verità, nella giustizia. Nella vita».

Sono in Paradiso, questi uomini?

«(Si ferma) Sì, per me sì. E ti dico anche questo…».

Prego.

«Giovanni Paolo II definì i due giudici “servitori della giustizia”. Io posso parlare per il giudice Borsellino, perché l’ho conosciuto meglio rispetto a Falcone. Ecco, spero che Paolo venga riconosciuto come Servo di Dio. Lo dico dal mio piccolo. Ma glielo dobbiamo, come Chiesa, per la sua testimonianza di umanità. E di fede».

Alessandro Venticinque

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