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L’interVista a Chiara Scardicchio

 

Antonia Chiara Scardicchio
Docente di Pedagogia aggregata all’Università di Foggia.
Madre di due figli, ha vinto il Premio italiano di pedagogia con il libro “Il sapere claudicante”

La conferenza “Le fragilità affettive” che ha tenuto ad Alessandria il 16 marzo scorso, ha messo in evidenza una serie di problematiche tese a ribaltare determinate considerazioni sulla vita. A cominciare dall’affermazione “la vita è come ce la raccontiamo”. Cosa significa?

“La vita è come ce la raccontiamo”: è un’espressione apparentemente di natura popolare ma, in realtà, scientificamente fondata. Si deve una forma così colloquiale e divulgativa al genio di Bruner che è stato il primo, in qualità di psicologo della conoscenza, a dare credibilità alla narrazione come modalità di produzione della nostra conoscenza. Da lui in poi sono state le neuroscienze, e dunque le validazioni neurobiologiche, a dimostrare che le nostre narrazioni sono le nostre rappresentazioni del reale e che noi accediamo alla conoscenza attraverso esse. E, dunque, sebbene questo possa gettare nello sconforto chi teorizzava e sperava che la realtà fosse una ed uguale per tutti, in realtà questa è la nostra grande possibilità di sperimentare la libertà, in quanto esseri umani creativi, creatori delle nostre rappresentazioni. Questo non vuol dire cedere al relativismo o, peggio, al nichilismo. Il fatto che la realtà sia soggetto ad interpretazione non vuol dire rinunciare alla ricerca, anzi potenzia la nostra ricerca al fine di spingerci sempre oltre rispetto a quanto noi crediamo che è così come noi lo vediamo. E questo al cospetto, soprattutto, delle sofferenze che sono narrazioni, talvolta devastanti, non soltanto in riferimento al dolore in sé che ci prende ma, appunto, in riferimento al modo con cui noi percepiamo quel dolore: se come definitivo, definitorio, senza scampo o se come possibilità di ristrutturazione, di riscrittura, di ridefinizione del reale.

Pensiamo all’avvento di una malattia, anche grave, alla perdita di una persona cara, sappiamo che ci sono uomini e donne che restano ammutoliti e logicamente devastati da questo grande dolore. Però sappiamo che ci sono anche altri uomini e donne in grado, davvero, di risorgere dopo un dolore anche terribile. Perché questo? Sappiamo, dal punto di vista delle neuroscienze, che tutto ciò è dovuto alle nostre possibilità di plasticità cerebrale, ovvero alle nostre possibilità di ri-raccontarci persino un dolore con modalità che siano resilienti, ovvero in grado di trasformare in apprendimento anche l’esperienza più drammatica di disordine, di caos, di caduta.

Se la vita che abbiamo vissuto e quella che ipotizziamo di poter vivere non ci piace, non corrisponde ai parametri della società in cui viviamo e che, comunque, ci condizionano, come è possibile cambiare?

Nella premessa, questa domanda dice “se la vita non corrisponde ai canoni della società in cui viviamo”. Ebbene, non è detto che si debba volerla cambiare se non sta nei canoni del successo o dell’affermazione o della ricchezza. Per noi cristiani, per esempio, “non essere nei canoni” è la norma.

Per noi cristiani, per esempio,“non essere nei canoni” è la norma

Quindi, direi che posso riprendere piuttosto la prima parte della sua domanda, quella in cui fa riferimento alle circostanze in cui “non ci piace la vita che viviamo”. Anche questo, purtroppo, è norma per molti di noi. La grande domanda è: in riferimento a che cosa non ci piace? Non ci piace rispetto a quello che è accaduto nella nostra storia e che non è andato come avremmo voluto? Ebbene, questa è la norma. Una vita che vada soltanto come io desidero – una vita che proceda linearmente, senza dolori, discontinuità, cadute – non è la vita. E’ davvero ingenuo ed insieme delirante, quindi tiene insieme la posizione del bambino ma anche la perdizione dell’idolatra, questa postura che ci porta a ritenere che la vita è felice, è sana, soltanto se non presenta dolore. In realtà – e anche le scienze esatte lo sottoscrivono, le leggi della fisica contemporanea lo dimostrano – la discontinuità, la rottura dell’equilibrio, sono la regola, non l’eccezione, nei sistemi viventi. Allora ritorno alla domanda: che cosa vuol dire ‘la vita non ci piace’? Può altresì voler dire che non ci piace la risposta che noi diamo agli eventi della vita. Questa, allora, è una domanda interessante perché, dicevo prima, al cospetto del medesimo dolore gli esseri umani rispondono posizionandosi diversamente. Allora posso chiedermi ‘posso cambiare le mie narrazioni’? La risposta è assolutamente si. Come farlo? Ognuno di noi è in grado di lavorare su se stesso. Intanto osservando qual è la sua narrazione e, poi, provando con piccoli passi a ri-narrarla. Kuhn scrisse che il dogma più pericoloso è quello della “immacolata osservazione”: sì, è la pretesa che la vita sia monocorde, che suoni solo una musica, la mia. Se la mia narrazione è ‘sono sfortunata’, oppure ‘il mondo ce l’ha con me’, posso osservare questa narrazione, considerarla una versione, una “messa in prosa” di un poema molto più complesso. Nell’attimo in cui mi accorgo che ogni mia è una narrazione parziale, non è la realtà, è allora che posso esercitarmi a mutare il punto di vista, a renderlo – si dice scientificamente- complesso, sistemico. E domandarmi: “Cosa c’è che ancora non vedo”?

È soltanto quando scopro di essere “cieco”, è solo allora che vedo.

Questo paradosso è uno dei punti cardine della “Seconda Cibernetica”. Ma non trova che sia anche già stato meravigliosamente identificato da Gesù?

Cambiare punto di osservazione, cambiare le parole della nostra narrazione… questo non vuol dire passare alla narrazione opposta, per cui dico ‘ah che meraviglia, va tutto bene’, mentre il dolore mi sta spaccando il cuore. Anche questa è una distorsione del reale, un modo ingenuo di incantarci, raggirarci, provare a stordirci con parole senza sfumature.

Ogni narrazione che consideri del reale soltanto una parte, ogni narrazione che, quindi, racconti il reale soltanto come terribile, oppure soltanto come meraviglioso è una narrazione non sistemica, e dunque è una narrazione non reale: perché la forma della realtà è la coesistenza di dolore e bellezza, di tragedia e meraviglia.

Allora, l’impegno che possiamo darci è quello di esercitarci continuamente a tenere insieme le due dimensioni proprie della vita. L’esperienza della storia di nostro Signore è infatti quella di una storia che tiene insieme morte e resurrezione. Un racconto della vita di Gesù centrato solo sulla morte non sarebbe reale, così come un racconto che narrasse soltanto la sua resurrezione non sarebbe reale, non sarebbe neppure credibile. Si tratta, allora, di provare a vegliare sulle nostre parole, le parole che ci raccontiamo e provare a sperimentarne altre.

Come?

Osservando chi attorno a noi ne esercita altre. Siamo in grado di osservare accanto a noi chi sviluppa risposte che ci affascinano perché sono risposte di non abbattimento, di non scoramento al cospetto della fragilità. E possiamo, come fanno i bambini, osservando e imitando, piano piano sperimentare nuove modalità di risposta. Risposte resilienti, risposte cristiane. E, dunque, chi io sono, chi posso essere, chi voglio essere, dipende dall’incontro fra identità e comunità e da come io incarno il mio impegno alla rivoluzione personale muovendo dal mio incontro con l’altro, con gli altri incredibilmente uguali e diversi da me. Accogliere la Grazia significa riconoscersi ricercatori. La Grazia esplode e davvero cambia le storie: ma siamo liberi e dunque ciò avviene e può avvenire solo nella misura in cui nella relazione con Lui non teniamo il registro dei dolori e delle gioie come se fossimo banchieri. Così facendo, lo trattiamo come se nel dolore o in “quello che nella nostra vita non ci piace” Lui si fosse assentato o avesse sbagliato. Ed invece si tratta di capovolgere il punto di osservazione, di mutare le parole della nostra narrazione: proprio quella ferita, quella caduta, quella dispersione sono la possibilità di apprendimenti a cui altrimenti non avremmo mai avuto accesso. Il dolore può essere motivo di dannazione, sì. Ma anche di redenzione.

È un mistero insieme antropologico e mistico: proprio quella ferita – come ha scritto Carotenuto – può diventare una feritoia. Tutto dipende da come io la guardo.

E dalle parole con cui la narro.

Lei è la mamma di Serena, una bambina disabile, che “non è solo portatore di limiti ma di valori”…

Se non avessi avuto Serena sarei molto probabilmente rimasta bloccata nella mia inclinazione più potente: lamentarmi, rattristarmi, sentirmi inerme davanti a quello che della mia vita non ho deciso ma sentito di aver soltanto subìto.

L’incontro con questa figlia così dolorosa è stato come essere scuoiati. Perdere tutto. Certezze, sogni, parole. Sprofondare negli inferi prima ancora che dei suoi limiti, dei miei. Lo è tuttora: i limiti suoi e miei sono sull’altare della nostra vita casalinga ogni santo giorno. Ma la differenza è proprio in questa nudità che lei mi ha insegnato: stare al cospetto della vita faticosa con gratitudine, non con rabbia. Stare al cospetto della sua vita e della mia – entrambe incomprensibili, irragionevoli, potrei dire “ingiuste” – lasciando andare il bisogno di sapere, capire, forzare la vita a stare nella mia misura. Da lei imparo a radicarmi in ciò che conta: il miracolo, che altrimenti avrei vissuto come scontato, di essere vivi.

 Un testimone è credibile perché vero

Mi chiede perché chi mi ascolta trae incoraggiamento… non mi hanno mai fatto questa domanda! Non so dirle perché avviene quello che lei mi dice. Non so dirle perché si possa ricevere una spinta quando si ascolta qualcun altro. Probabilmente perché sentiamo che è credibile nella misura in cui ha conosciuto profondamente il dolore ed è in grado di guardarlo in faccia, di narrarlo senza edulcorarlo.

Di solito sentiamo credibili coloro che sono scesi nell’inferno e sentiamo credibile l’annuncio di riscrittura da parte di chi, come dicevo prima, tiene insieme contemporaneamente le tracce della morte e della rinascita. Non so dirle, davvero, perché da me si possa ricevere questa spinta. Io posso dirle che, quotidianamente, sono al cospetto delle mie cadute, della mia fragilità, in alcuni campi molto più che in altri. Quello che ho imparato è ad osservare ostinatamente gli esseri umani fragili che incontro, che però sono in grado di non vergognarsi della loro fragilità e di stare al suo cospetto, di benedirla e poi di trasfigurarla. E, quindi, posso dire che ogni giorno conosco la vulnerabilità, nelle dimensioni piccole nel non riuscire a portare a termine un compito grande o apparentemente banale come fare la spesa, così come nelle dimensioni importanti. Conosco degli esseri umani la vulnerabilità. Quello che ho imparato è a restare scuoiata, a restare senza pelle al cospetto del vento che ferisce ed a cercare di non credere all’annuncio di chi sostiene che ci sia morte mentre siamo ancora in vita. Perché, sicuramente, morte c’è ma c’è anche qualcos’altro contemporaneamente.

Contemporaneamente è una parola molto cara alla fisica quantistica ma è anche una parola preziosa per noi cristiani, che siamo contemporaneamente nel tempo e nell’eterno, nello smarrimento e nella salvezza, nella nudità e nella protezione. La buona notizia del Vangelo è assolutamente questa.

A cura di
Marco Caramagna

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