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I piani del nemico: il libro di Alessandro Vespignani

La recensione

Nel febbraio del 2023 il quotidiano Wall Street Journal ha riferito che, secondo una ricerca effettuata dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, il Sars-CoV-2 sarebbe uscito accidentalmente da un laboratorio cinese. Tale ipotesi, mai accertata in maniera incontrovertibile, ha però accompagnato costantemente le cronache di questi tre anni di pandemia. La conclusione delle indagini della Procura di Bergamo ha poi riportato ulteriormente all’attenzione i terribili giorni dell’emergenza sanitaria. A rileggere i mesi drammatici di inizio 2020 è il fisico Alessandro Vespignani, docente presso la Northeastern University e direttore fondatore del Northeastern Network Science Institute di Boston, nel suo ultimo libro I piani del nemico (Rizzoli, pp 295, euro 18,50). Sul progetto del testo è molto eloquente il sottotitolo: Cos’è e come funziona la scienza delle previsioni in tempo di crisi. Lo scopo è analizzare, senza sconti per nessuno, la sequenza dei fatti, capire gli errori, fare tesoro delle acquisizioni positive per essere pronti a fronteggiare la prossima epidemia senza replicare meccanismi difensivi che potrebbero essere inadeguati di fronte a un virus completamente diverso. Dobbiamo «creare un sistema di risposta che sia preparato a cambiare strategia a seconda del nemico» (p. 259).

Riflettendo sulle prime fasi del contagio, il libro spiega che se è vero che le «comunicazioni dalla Cina non sono state tempestive e trasparenti», tuttavia sarebbe «riduttivo pensare che questa pandemia sia solo colpa di qualche evento iniziale che poteva essere evitato» (p. 41). Per quanto riguarda il fronteggiare l’emergenza il volume spiega che il «comportamento spesso irragionevole dei media e le aspettative altrettanto irragionevoli del pubblico porteranno spesso a decisioni intempestive o illogiche prese dagli organi politici, in parte ispirate proprio dalla pressione congiunta di media e pubblico» (p. 55). Raccomanda l’autore: «Diffidate dei politici che dicono “noi seguiamo la scienza”, […]. Un decisore onesto dovrebbe semmai dire che “ascolta la scienza”» (p. 162).

In effetti, secondo Vespignani il «fallimento comunicativo è stato uno dei disastri più evidenti della gestione pandemica» (p. 223), con ricercatori «più interessati a tenere viva l’attenzione sul proprio personaggio che sugli accadimenti scientifici» (p. 229) e governanti che trattavano «i cittadini come bambini incapaci di elaborare pensieri adulti e complessi» (p. 233). Cosa che ha spesso contribuito a generare paure, diffidenze, teorie del complotto.
Sono pure mancate le «infrastrutture importanti dedicate all’analisi dei dati e alla previsione della traiettoria dei contagi» (p. 79), anche nel caso della pur prevista seconda ondata. «Le società occidentali si erano cullate in un piacevole sogno in cui la pandemia era finita e il virus indebolito. Al risveglio si trovavano a fare i conti con le carenze dei sistemi di monitoraggio, con protocolli e infrastrutture che dovevano essere preparate nei mesi precedenti» (p. 199).

Una parola chiara il direttore Vespignani la spende in favore dei vaccini a mRna (quelli prodotti da Pfizer e Moderna, per capirci), che hanno impresso una svolta al contrasto al Covid-19, i cui studi di base «avevano alle spalle oltre dieci anni di lavoro» (p. 210). Peraltro essi, «tranne casi specifici, non devono essere considerati degli scudi impenetrabili» (p. 214) ma armi preziose «per ridurre il rischio di finire in ospedale o di avere un decorso fatale della malattia, ma anche per abbattere la pressione sui sistemi sanitari» (p. 217).
Quando finirà la pandemia? La domanda è universale e legittima, però «non si spegne un’epidemia come se buttassimo l’acqua da un elicottero sopra un incendio» (p. 213). «Immaginare di uscirne da soli mentre nel resto del mondo continua a generare sfracelli è un’ingenuità e un errore grave» (p. 219). Dal momento che «vaccini e farmaci sono un bene pubblico sovranazionale» (p. 220) ma le difficoltà logistiche, soprattutto legate alla catena del freddo, sono innegabili, occorre aumentare la capacità regionale di produzione. In sostanza il virus «continua a infettare, mutare e uccidere, ma la società ha deciso per decreto che la pandemia non è più un problema» (p. 254). Speriamo che le lezioni che Alessandro Vespignani trae da questa pandemia, peraltro effettivamente non ancora conclusa in ogni angolo del pianeta, siano apprese da tutti e specialmente dalle autorità.

Fabrizio Casazza 

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