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L’esempio di Domenico Arnoldi

Lo speciale

Domenico Arnoldi (Alessandria, 1907 – 1983) segnò profondamente con il suo impegno in molteplici ambiti la storia della nostra Diocesi e della nostra città. Nel 1932 sposò Giuseppina Scazzola, da cui ebbe quattro figli. Commerciante visse la sua attività come vocazione, rendendo il suo negozio punto di riferimento per tante persone che lo apprezzavano per l’onestà e la capacità di dialogo.

Formatosi alla scuola di Carlo Torriani e Maria Bensi, maturò nell’Azione Cattolica scelte di responsabilità. Ricoprì per diversi anni il ruolo di consigliere comunale. Terziario francescano, componente dell’Associazione San Francesco, fu il primo interprete del pastore Gelindo nella tradizionale commedia dialettale natalizia. Con la sua forte carica spirituale ha sempre trovato lo spazio per il servizio: fu priore della Confraternita della Misericordia e volontario nel Movimento Apostolico Ciechi. Maggiore degli Alpini costituì la sezione alessandrina dell’Ana al cui interno promosse la fondazione del Coro Montenero e del periodico “Il portaordini”. A quarant’anni dalla sua scomparsa, vogliamo riscoprire la sua testimonianza attraverso il ricordo di chi lo ha conosciuto.

  • Elisabetta Taverna
  • Mariangela Arnoldi
  • Mauro Caselli
  • Agostino Pietrasanta
  • Renato Balduzzi

Per me era “il nonno Nino”

Per me Domenico Arnoldi era il nonno Nino, il nonno materno di cui conservo tanti ricordi carichi di affetto legati ad innumerevoli episodi di vita famigliare. E nell’ordinarietà di una famiglia unita, abituata a ritrovarsi, dialogare, condividere, festeggiare insieme le ricorrenze, percepivo che il nonno era una figura straordinariamente vivace, impegnato in molteplici attività di cui era spesso l’ideatore, conosciuto e stimato da tantissime persone.

La folla commossa che partecipò ai suoi funerali, i diversi articoli dedicatigli dalla stampa locale, l’intitolazione del teatro di via Vescovado mi diedero ulteriormente conferma del fatto che avesse lasciato un segno importante ma il mio sguardo di undicenne non poteva cogliere tutto il valore della sua testimonianza.

All’inizio del mio mandato da presidente diocesana, la ricorrenza del 150° anniversario di fondazione dell’Azione Cattolica mi ha spinto a cercare materiale storico della nostra associazione. Con particolare emozione ho ritrovato verbali, lettere, documenti firmati da Domenico Arnoldi. Da quelle pagine emergono la dedizione e l’impegno appassionato di chi ha scelto di offrire un servizio nella Chiesa per renderla sempre più vicina agli uomini e alle donne del proprio tempo, senza nostalgie per il passato e con uno sguardo verso il futuro; l’intraprendenza nel tracciare strade nuove in periodi storici complessi; lo stile associativo espresso in un costante confronto tra adulti e giovani, laici e sacerdoti; un senso di partecipazione così marcato da riuscire sempre a coinvolgere altri nella responsabilità e passare il testimone al momento opportuno.

Tra i tanti scritti ce n’è uno che mi colpisce particolarmente, rivolto al gruppo de “I sempre giovani” costituito al termine del corso di formazione per animatori organizzato nel 1950 in occasione dell’Anno Santo (che trovate qui a lato, ndr).

Quella che noi oggi definiamo “promozione associativa”, sulla quale stiamo riflettendo preparandoci ad un nuovo cammino assembleare, ha radici profonde: si è trasmessa anche grazie alle tante pagine che il nonno Nino ha redatto con la sua macchina da scrivere e ai chilometri che ha percorso con la sua bicicletta.

Mio padre? Una dinamo umana

«Era un fiume in piena, come lo definì una volta monsignor Carlo Canestri, allora parroco a Sant’Alessandro. Uno di quei tipi sempre positivi… e poi aveva una grande fede, per cui in quello che faceva “trasportava” tutti con il suo entusiasmo». Basterebbero queste parole per farci capire la personalità e il carisma di un uomo come Domenico Arnoldi, che ha dato tutto a Cristo, donandosi anima e corpo alla Diocesi di Alessandria. Ma c’è ancora molto altro da scoprire, e dunque lasciamo la parola a Mariangela Arnoldi (nel tondo), la figlia, che ha accettato volentieri di incontrarci per parlarci di suo papà. Una persona, come leggerete, davvero fuori dal comune.

Mariangela, che tipo era suo padre?

«Che tipo era mio padre? Era un vulcano! Anzi, un fenomeno… (sorride) Si può dire “fenomeno”?».

Si può dire…

«Lui era nato in una famiglia molto religiosa e molto attiva. Le sue sorelle appartenevano al Terzo ordine francescano, e anche i genitori erano presenti in parrocchia. Era questa l’aria che si respirava in casa sua».

La giornata di suo papà iniziava con la Santa Messa, se non sbaglio.

«Sì, tutte le mattine alle 7. E dopo andava ad aprire il suo magazzino di alimentari all’ingrosso, conosciuto in tutta la città. La sera, quando tornava a casa, la sua giornata non era ancora finita».

In che senso?

«La sera era dedicata ai tanti impegni di volontariato. Per esempio, ricordo che quando era presidente dell’Azione Cattolica dopo cena scriveva le lettere degli avvisi da mandare nelle varie parrocchie, e mia mamma a volte lo aiutava. Poi lui partiva in bicicletta (non aveva la patente della macchina) e andava in stazione, anche a mezzanotte, dove c’era una buca delle lettere collegata direttamente all’ufficio postale. In modo che arrivassero il giorno dopo».

Chi erano gli amici di Domenico?

«Erano moltissimi, e lui spesso andava a trovarli. Non solo: mio padre aveva tanti preti amici, tanti… aveva questo dono di saper parlare con tutti e di conciliarli. Io ho sentito dire che molti sacerdoti, che tra loro non andavano d’accordo, chiedevano aiuto a mio papà. E lui, con il suo modo di fare, rimetteva insieme i pezzi e portava la pace. In generale, la sua vita era spesa per il bene e per la carità».

Ci racconta qualche episodio?

«Mio padre aveva questo magazzino di alimentari, che tra l’altro un altro parroco di Sant’Alessandro, don Gianni Cossai, aveva definito “la terza chiesa della parrocchia”, dopo Sant’Alessandro e i Frati in via San Francesco. Ebbene, i poveri passavano da lì e lui donava sempre loro qualcosa: un pezzo di formaggio, una scatoletta di tonno o altri generi di prima necessità. Nessuno se ne andava mai a mani vuote».

Non era una carità ostentata, la sua.

«No, non era ostentata. Ma c’era. Ricordo che un giorno un suo dipendente mandò via un povero che andava sempre a chiedere qualcosa. Mio papà, saputolo, rincorse il povero e gli diede un bel pezzo di formaggio. Poi andò dal dipendente e gli disse così: “Da questo magazzino nessun povero deve uscire senza niente!”».

Lei lo vedeva pregare spesso in casa?

«Sì, la sera in famiglia dicevamo spesso il Rosario insieme».

E che marito era, Domenico Arnoldi?

«Era un marito molto affettuoso, legatissimo alla moglie. E quando lei è morta, per lui è stato un colpo pesantissimo. Diceva sempre: “Eh, ma Lina non c’è più”. E dopo quattro mesi l’ha raggiunta… prima che lei mancasse, avevano festeggiato i 50 anni di matrimonio. Ma la mamma era già malata».

Ci racconta ancora un episodio in cui si evidenzia un aspetto della fede di suo padre?

«Come ho già detto, era uno che non stava mai fermo, una dinamo umana! Ma il suo ultimo Natale, quello del 1982 (lui è morto nel febbraio dell’83), fu “costretto” in casa dalla malattia, non poteva più uscire, non faceva più nulla. Ricordo che gli telefonò il Vescovo di allora, monsignor Maggioni, per fargli gli auguri e chiedergli come stava. E mio padre gli rispose: “Eccellenza, adesso non posso più fare tutte le attività… ormai il mio apostolato è l’apostolato della sofferenza”. Restammo tutti lì, sorpresi. Non poteva fare più niente, ma offriva questa sua sofferenza come un apostolato».

Lui era Gelindo… o Gelindo era Arnoldi!

Mauro Caselli, presidente dell’Associazione San Francesco di Alessandria.

Mauro, tu hai conosciuto Domenico Arnoldi quando eri bambino. Che ricordo hai di lui?

«Ho conosciuto Domenico Arnoldi dietro le quinte e nell’angusto camerino in cui si cambiavano gli “attori” del Gelindo nel retropalco del teatro San Francesco. Io allora ero poco più che un bimbo, intento a vestire il costume da paggetto dei Magi. Ricordo un distinto signore con la voce un po’ gutturale e la pronuncia connotata dalla tipica “erre” alessandrina, che lasciava i panni borghesi per calarsi in quelli del pastore venditore di “sirassi” (formaggette, ndr), che per primo sarebbe poi arrivato a visitare il Bambino nella grotta di Betlemme, partendo dalla riva del Tanaro. Non si sa bene come, ma questo è nel mistero o meglio nel dogma di Gelindo, come ripeteva lui stesso».

Che cosa ti colpiva del suo “Gelindo”?

«Che lui era Gelindo! Oppure Gelindo era Arnoldi! Ha vestito i panni del pastore per cinquant’anni ininterrottamente e le raccomandazioni che in scena il pastore fa ai suoi garzoni Tirsi e Mafè erano le stesse che, per ritmo e intonazione, faceva a noi bimbetti che scorrazzavamo dietro le quinte. Ricordo la sua particolare concentrazione nel mandare a mente la Businà iniziale, pochi istanti prima dell’apertura del sipario. In questo prologo semiserio, accanto alle battute irriverenti che raccontavano la quotidianità alessandrina, erano sempre presenti richiami ai valori della fede, quasi interpretasse a sprazzi una predica laica».

Quale eredità umana e spirituale ha lasciato all’Associazione San Francesco?

«Enorme. Basti pensare che Gelindo, nel Natale del 2024, si appresta a festeggiare il centenario. E questa specie di miracolo di longevità è in buona parte ascrivibile ai valori e all’impegno che Domenico Arnoldi, insieme a molti altri, ha saputo infondere ai giovani che gli stavano accanto. Che una volta cresciuti ne hanno fatto tesoro e, a loro volta, hanno saputo diffondere, contagiando le nuove generazioni sino ad arrivare ai nostri giorni».

Come si può “trasmettere” alle nuove generazioni della nostra Diocesi la personalità e la forza della fede di uomini come Arnoldi?

«Penso che qualsiasi tipo di valore possa essere trasmesso a giovani e meno giovani soprattutto con l’esempio. Certo, anche con la parola oppure il ricordo. Ma oggi siamo sempre meno abituati a leggere testi che superino i caratteri di Twitter o una videata di Whatsapp, con la tendenza ad approfondire sempre meno il contenuto delle cose, perché, avendo tutto a portata di mano, finisce che è come se non avessimo niente. Se mi parlano, o mi spiegano, o leggo come fare una buona azione è un bene. Se poi vedo anche qualcuno che in silenzio mette in pratica quella buona azione senza tentare di spiegarmela, è ancora meglio. Quando la grammatica viene unita alla pratica, penso che il risultato finale possa davvero essere contagioso. Come nel caso di Domenico Arnoldi».

Evangelizzatore nella Chiesa locale

Cominciava la sua giornata con la Messa a Sant’Alessandro o dai frati francescani; poi si recava a aprire il suo magazzino di formaggi nella centrale piazza Turati. Poteva farlo perché la prima Messa, peraltro quotidiana, veniva celebrata alle sette. Quando mi capitava di accompagnarmi con lui, confidava, non senza una punta di bonaria ironia, che all’apertura delle saracinesche, doveva sempre mostrarsi sorridente e soddisfatto, comunque gli andassero gli affari e gli impegni familiari e pubblici; un’ostentata insoddisfazione avrebbe potuto indurre sospetti nei clienti e compromettere la sua attività. La facile battuta costituiva una caratteristica dei suoi numerosi rapporti.

Mi riferisco agli anni del dopo Concilio, ma Domenico Arnoldi si era formato negli anni tra le due guerre, nel periodo della prepotenza totalitaria, in sintonia con gli insegnamenti della Chiesa, grazie agli esempi della vita familiare. Frequentò soprattutto l’associazionismo ecclesiale e, in Azione Cattolica, incontrò un personaggio straordinario, Carlo Torriani antifascista vittima di persecuzioni e violenza anche fisica da parte di un piccolo gerarca locale. Arnoldi ne fu impressionato al punto da trarne definitive scelte di antifascismo e di Resistenza alla dittatura che, nel dopo guerra espresse in varie forme nella Chiesa, ma anche nella costruzione della città dell’uomo, in politica. Fu dirigente dell’Azione Cattolica diocesana nell’importante passaggio del pontificato di Pio XII che aveva chiamato i cattolici all’impegno e all’apostolato laicale. Domenico Arnoldi percorse la diocesi; e contattò ripetutamente le parrocchie periferiche e cittadine: mezzo di trasporto, la bicicletta. Tutte le domeniche dopo la Messa solenne, incontrava gli aderenti all’associazione, li sentiva e ne coordinava l’attività, raccoglieva adesioni e faceva evangelizzazione col sussidio degli strumenti messi a disposizione della presidenza nazionale, ma sempre in accordo coi parroci suoi ammiratori e spesso amici.

I suoi orizzonti però si allargarono ben presto al campo della politica; fu per molte legislature Consigliere comunale nel gruppo di opposizione, ma sempre molto consistente, della Democrazia Cristiana. Nella sua attività era sempre attento al rispetto delle persone, anche se contestava con registro di bonaria ironia, l’insensibilità della giunta socialcomunista net confronti della religiosità popolare e cittadina. Ricordava spesso le obiezioni al Sindaco e agli assessori sempre assenti nel passaggio della processione della Salve, espressione diffusa e generale della devozione alessandrina.

Negli anni successivi al pontificato di Pio XII, Arnoldi si fece interprete in sede locale dei tentativi di rinnovamento di una Chiesa che stava affrontando col Concilio le sfide della modernità. Lo entusiasmò la riforma liturgica e collaborò alla ripresa dell’associazionismo ecclesiale grazie alle nuove responsabilità affidate al laicato che, con le proposte conciliari, era chiamato a una impegnativa collaborazione; e quando nuove dirigenze entrarono nell’Azione Cattolica collaborò con convinzione e spirito di servizio sempre gratuito, per una Chiesa di gratuità..

Forse un suo contributo fra i più avvertiti fu quello del “Gelindo”, commedia recitata in dialetto alessandrino, presso il teatro S. Francesco. La vicenda dei pastori che, per primi si recano a adorare il “…signor Messia…” costituì per Arnoldi una diversa, ma non per questo meno impegnativa esperienza di evangelizzazione. Per molti anni fu protagonista indiscusso e guida per parecchie generazioni di interpreti della “devota commedia” nello spirito e nella realizzazione della più disinteressata esperienza. Accorrevano in tanti nei giorni del Natale a divertirsi e a imparare; Arnoldi pur nel divertimento, nella ironia della recitazione e nei confronti piacevolissimi dei personaggi popolani e “ingenui” sapeva sempre trovare momenti di commovente devozione, centrati sul passaggio della visita nella capanna davanti a Gesù bambino, Dio incarnato nell’umanità. Il tutto accompagnato dal monologo iniziale (la businà) che affrontava temi locali, nazionali e spesso internazionali con umorismo di rispettosa irrisione Si trattava e si trattò di una forma straordinaria di evangelizzazione. E questo fu contributo che lo impegnò fino alla fine dei suoi giorni: la memoria, anche in questo caso e soprattutto in questo caso, si fa gratitudine.

Sapeva parlare con tutti, ascoltava molto e incoraggiava i giovani

“Voce” mi chiede un ricordo di Domenico Arnoldi. Dico subito che, quando penso a lui, mi si sovrappongono tre immagini, o meglio quattro: Domenico-vecchia guardia, Domenico-Gelindo, Domenico-commerciante, Domenico-alpino. L’ordine con cui vengono alla mente e che ho trascritto non è casuale.

Noi giovani di Azione cattolica degli anni Settanta abbiamo fatto in tempo non soltanto a conoscere, ma a collaborare e ad interagire con la “gloriosa generazione” che aveva vissuto e concorso a creare, a partire soprattutto dalla metà degli anni Quaranta, un’Associazione numericamente molto forte, quella che venne chiamata degli anni dell’onnipotenza. Rispetto alla “vecchia guardia” l’atteggiamento nostro era in genere ambivalente: avvertivamo la distanza non soltanto anagrafica, ma di sensibilità (il Concilio Vaticano II era inteso e recepito diversamente), e al tempo stesso il fascino di personalità che rispetto a noi apparivano meno dubbiose, meno problematiche.

Il comm. Arnoldi costituiva, per me, uno dei rappresentanti migliori di quella generazione: sapeva parlare con tutti, nelle riunioni ascoltava molto e sfruttava l’esperienza e la naturale simpatia non per schiacciare i più giovani e orientarli secondo le sue vedute, ma per incoraggiarli. Ricordo i suoi interventi in Consiglio pastorale: brevi, secchi, sempre costruttivi, mai irosi anche quando (eravamo negli anni del referendum sul divorzio e del programma pastorale evangelizzazione e sacramenti, su cui le sensibilità all’interno della comunità ecclesiale erano articolate) il dibattito si faceva acceso. E ricordo anche quanto il vescovo Almici tenesse in considerazione l’opinione di Domenico.

Certo, Arnoldi poteva comportarsi così ed essere percepito così anche perché era Domenico-Gelindo. Per noi, in quegli anni, la “divota cumedia” non costituiva soltanto l’occasione per ritrovarci insieme nel Teatro San Francesco, ma forniva il lessico quotidiano, quello che permetteva con facilità di capirci, di solidarizzare, di condividere valori comuni anche diversamente interpretati. E di non prenderci troppo sul serio (eterna tentazione dei lavoratori intellettuali…). Il dialetto, che la mia generazione non aveva generalmente sperimentato in famiglia (erano gli anni del sospetto verso il dialetto, delle lingue tagliate), ridiventava tecnica di comunicazione primaria, immediata, grazie all’insuperabile duo Arnoldi-Visconti (Gelindo-Maffè), che era un po’ il cuore della rappresentazione, cui facevano degnissima corona tante altre persone, in una coralità di amicizia e di fraternità. L’incontro dei pastori con Gesù bambino, mediato attraverso l’arte comica, costituiva lo stimolo per incontrare il Signore nella vita di tutti i giorni.

Che cosa dire, poi, dell’Arnoldi commerciante? Anzitutto, Domenico aveva un vezzo, quello di nascondere e sminuire la sua preparazione spirituale e culturale, e per fare questo amava sbattere in faccia al proprio interlocutore (magari giovane, appassionato dello studio, qualche volta un po’ saccente) il suo essere terra a terra, il suo intendersi soltanto di “salam e furmagg”. Già, perché di alimenti e di alimentazione Domenico se ne intendeva davvero. Se volevi avere un indirizzo sicuro in città per trovare un certo genere alimentare di qualità, bastava chiederlo a lui, e venivi indirizzato subito al posto giusto, senza necessità di parlare male i questo o quel commerciante, ma semplicemente indicando l’indirizzo da preferire. Ma sapeva anche inquadrare le difficoltà del settore, senza troppo indulgere – ancorché lisandrén a tutto tondo – nell’autocommiserazione e nella lamentela continua.

Infine, il Domenico-alpino. Anche qui, egli condivideva, e sapeva guidare, gli aspetti folk: la mangiata in compagnia, la cantata, il ritornare fanciullo e spensierato. Ma non finiva qui. La sezione di Alessandria dell’Associazione alpini, da lui fondata, si caratterizzò da subito (e ancora oggi continua, proprio portando il suo nome), a livello regionale e nazionale, per la vicinanza ai più deboli, ai più fragili, a livello individuale e collettivo. Cioè per quello spirito di servizio che Domenico aveva respirato sin dalla gioventù, e che continuava ad esercitare negli incontri della vecchia guardia, nella rappresentazione del “Gelindo”, nella sua professione. Per tutto questo, il ricordo si fa memoria grata, carissimo e indimenticabile Domenico.

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