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Il Natale ci apre alla seconda venuta del Signore

L’intervista a monsignor Gallese

«Una prospettiva escatologica, orientata all’incontro con Dio, ha il potere di dissipare le tenebre dell’incertezza sull’Aldilà»

Eccellenza, ci aiuta a cogliere il senso del Natale?
«Gesù nasce in mezzo al popolo di Israele, che a quell’epoca era una provincia alla periferia dell’Impero romano. E per di più proviene dalla Galilea, che era considerata periferia di Israele! (sorride). La famiglia di Gesù infatti era di Nazareth, un villaggio di massimo 300 abitanti collocato in Galilea, la parte meno nobile di Israele. San Bartolomeo apostolo, quando gli dissero di aver trovato il Messia, Gesù da Nazareth di Galilea, rispose così: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?”. La parte buona, infatti, era la Giudea, con Gerusalemme e il Tempio. La Galilea, che pur aderendo al culto di Israele aveva addirittura una parlata differente da quella dei Giudei, era veramente la periferia della periferia! Non solo: Gesù non nasce a Nazareth, ma a Betlemme, “il più piccolo dei villaggi di Giuda”, per adempiere alle profezie».

E a Betlemme…
«A Betlemme non c’era posto nemmeno nel caravanserraglio, il locale dove erano alloggiati promiscuamente uomini e bestie. Gesù nasce dunque fuori Betlemme, in campagna, dentro a una grotta naturale che veniva usata per il ricovero del bestiame nelle notti particolarmente fredde. In una grotta in campagna, ma ci pensate? Questo mi porta a fare altre due considerazioni».

Prego.
«La prima è sul Natale “storico”, l’evento in cui Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, irrompe nella Storia. Ora, se riunissimo un gruppo qualificato di esperti per decidere dove far nascere il Verbo fatto carne, sorgerebbero interminabili discussioni: al termine delle quali nessuno di loro, ne sono certo, farebbe nascere Gesù a Betlemme, né lo farebbe vivere a Nazareth!».

E dunque?
«Dopo la nascita di Gesù, Giuseppe sogna di notte un angelo che lo invita a prendere con sé il bambino e la madre e a fuggire in Egitto. Gesù dunque si trova, appena nato, profugo in terra straniera. Se ci pensiamo bene, queste sono condizioni estremamente precarie, nelle quali nessuno di noi farebbe nascere il Figlio di Dio fatto uomo. Dunque il Natale “storico” ci richiama a porre la nostra attenzione non sulle cose umane, ma su altri criteri di vita: la noncuranza per le cose del mondo, l’attenzione alle cose di Dio e l’amore come criterio di senso unificante della propria esistenza».

Seconda considerazione?
«Il Natale per noi non può fermarsi alla rievocazione di un evento storico, ma deve aprirci alla seconda venuta del Signore. Per il cristiano non esiste una festa di Natale che non abbia una forte connotazione escatologica, ovvero riguardante le cose ultime, in una prospettiva orientata all’incontro con Dio che avverrà alla fine dei tempi. Lo sguardo escatologico ha il potere di dissipare le tenebre dell’incertezza sull’Aldilà, in questo mondo nel quale si parla solo di vita terrena. Il tacere della vita eterna avvalla fortemente il dubbio che possa non esserci! Invece, sapere che alla fine della nostra vita non c’è una tenebra, ma un regno di luce, dischiude orizzonti diversi di senso nelle nostre vite».

Vuol dire qualcosa a chi non passerà un Natale sereno?
«L’insegnamento dell’Apocalisse è di unirci al Signore Gesù nell’offrire amorevolmente le difficoltà che viviamo. Per trovare la pace, che è dono di Dio. In questo senso Cristo non ha portato la pace che ci aspetteremmo. Ma l’ha trovata solo nel compiere con amore la volontà del Padre, in un adempimento totale culminato sulla Croce».

Andrea Antonuccio

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