Intervista don Stefano Tessaglia, Cappellano dell’Ospedale Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo
In queste settimane io non sto di certo facendo l’eroe, ma per fortuna c’è chi lo fa…
Tra chi combatte gli effetti del coronavirus c’è anche don Stefano Tessaglia, direttore del Servizio diocesano per la Pastorale della sanità e Cappellano dell’Ospedale Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo. Lo abbiamo intervistato per approfondire l’impatto spirituale di questi giorni di emergenza.
Don Stefano, come stai vivendo questi giorni?
«Eh, che dire…».
Partiamo allora dal tuo servizio all’interno dell’ospedale: è tanto cambiato?
«Essenzialmente il mio è un ministero di ascolto e di vicinanza, pensate a come può realizzarsi in questo momento. L’importanza di questi aspetti è evidente da subito, perché davvero l’ascolto e la prossimità sono il fondamento di ogni relazione, soprattutto spirituale. Quando una persona si sente ascoltata, sa di essere importante, è così importante che qualcuno spende il suo tempo per lei. In questo oggi sono molto più limitato. La relazione si è fatta più concitata, le emergenze sono molte e i rapporti sono quasi sempre a distanza: in diversi reparti è difficile entrare, a volte sembra quasi di essere di intralcio e il dialogo con le persone si riduce spesso ad un “ciao” fatto con la mano e ad una benedizione tracciata da lontano. È una grande prova per tutti».
Chi ti chiede un aiuto spirituale in queste settimane?
«È una situazione davvero particolare perché i malati sono spesso in condizioni gravi e non sono in grado neanche di parlare. Sono le famiglie allora a farsi sentire, chiedendo una preghiera e una visita al posto loro, che sono magari a loro volta chiusi in casa in quarantena. Viene fuori per loro la difficoltà di pensare ai propri cari soli in un luogo estraneo, senza la possibilità di poter fare nulla per loro, anche piccole cose, che però darebbero almeno un po’ l’impressione di poter controllare la situazione. Poi c’è il personale, che sta dando una testimonianza di dedizione e sacrificio senza uguali. In queste settimane io non sto di certo facendo l’eroe, ma per fortuna c’è chi lo fa… Tutti mi chiedono di pregare per loro e qualche lacrima di stanchezza scappa sempre. Poi mi riempie di gioia, adesso ancora di più, entrare nella chiesa dell’ospedale e vedere qualcuno, magari in divisa, che sta pregando. Mi chiedo: “Chissà cosa dice al Signore?”».
Dove vedi Dio in questo dramma?
«Alcuni interrogativi mi hanno fatto cercare la sua presenza in questi ultimissimi giorni. Nel dialogo contenuto nel Vangelo scelto dal Papa per la sua preghiera di venerdì scorso: “Maestro non ti importa che siamo perduti?” gridano i discepoli, disperati per la barca che si rovescia. E poi ancora il Vangelo di domenica scorsa, la resurrezione di Lazzaro, con il duro rimprovero di Marta e Maria: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Queste domande, è vero, in questi giorni sgorgano dal cuore di molti, a volte con rabbia, a volte con disperazione o con speranza… Così ho cercato un senso – per me – alle tragedie attuali, e ho trovato un po’ di consolazione nella continuazione di questi Vangeli, specialmente nel vedere dove stava Gesù: il Signore era sulla stessa barca degli apostoli, sballottato dalle stesse onde; Cristo era accanto ai suoi amici, Maria, Marta, noi, a piangere e a condividere il dolore. Questo dovremmo ricordarlo più spesso nei tempi di difficoltà: non sono momenti in cui Dio si fa più lontano, ma più vicino. Se poi abbasso lo sguardo intorno, in questo ospedale, vedo Dio in ogni letto di ammalato, lo vedo nel personale che senza sosta si china su chi ha bisogno. Il discorso sarebbe lungo…».
In tutto questo, la Quaresima che stiamo vivendo ci aiuta a dare qualche significato particolare?
«Ci aiuta forse guardandone il principio e la fine. L’inizio della Quaresima, quest’anno, ci sembra così lontano, come fosse una vita fa. Eppure lì abbiamo ascoltato di Gesù nel deserto, messo alla prova nella sua natura umana e nella fragilità del suo corpo, proprio come noi. E poi c’è la fine e il fine di questi quaranta giorni: la Pasqua, nella quale la croce è soltanto un passaggio, doloroso e terribile, ma non è la mèta finale. Queste settimane ci ricordano che noi veniamo dalla polvere, ma che nonostante tutto, la polvere non è il nostro destino! Se ci pensiamo, la frase #andràtuttobene, in fondo, è un augurio pasquale! Io quest’anno ho deciso di metterla sopra alla croce, il venerdì Santo, al posto dell’INRI…».
Papa Francesco, nella sua preghiera dello scorso 27 marzo, ha detto: «Questa tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità». Da questa “tempesta” usciremo migliorati? E la nostra fede?
«Tutte le parole di quell’omelia mi hanno molto colpito. Il Papa infatti è andato proprio al centro del problema: l’egoismo e l’individualismo nella nostra società non hanno fatto altro che crescere. È l’“arrampicata sulla schiena dei fratelli” per affermare se stessi schiacciando gli altri, come ha scritto don Tonino Bello. Da questo atteggiamento non usciremo tanto facilmente credo e nemmeno una pandemia, forse, cambierà il nostro cuore. Però ci speriamo! I cristiani poi, che sono chiamati come Gesù, a condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi” come dice il Concilio, potrebbero sempre più imparare ad essere il piccolo lievito (così introvabile oggi!) che fa crescere tutta la pasta: i piccoli gesti di vicinanza nei confronti di chi ha bisogno, il senso di responsabilità per il bene di tutti, la preghiera familiare… sono buone basi di partenza e segni che fanno ben sperare!».
Alessandro Venticinque