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L’elefante nella stanza (prima puntata)

La nostra inchiesta sulla droga (1a parte)

Con l’espressione «nascondere un elefante nella stanza» si intende non prendere in considerazione una realtà che è nota ed evidente a tutti. Questo termine ha origini anglofone, ma viene spesso utilizzato anche da noi. Cosa c’entra tutto questo, vi chiederete? Negli ultimi anni, sempre più, il nostro Paese ha un grosso elefante nella propria stanza. Ma nessuno (o quasi) ne parla o cerca di muoversi per risolvere il problema. Questo immenso elefante è la droga. E dentro quella stanza, che sta diventando sempre più piccola, sono in tanti, stretti, e sempre più giovani. Per questo abbiamo deciso di immergerci in questa triste realtà, per dare voce a tutti coloro che toccano con mano le sostanze. Proveremo a raccontarlo con il nostro stile, senza dare nulla per scontato, cercando di mettere al centro la persona. Lo faremo in quattro puntate: in ognuna di esse ci faremo guidare dalla storia di Carlo, un giovane della Comunità Cenacolo di Montecastello (ad Alessandria). Lui ha vissuto in prima persona la dipendenza da cannabinoidi: la sua vita è stata stravolta, appiattita e offuscata. Perché le sostanze ti annullano, fanno sentire i tuoi giorni inutili e senza senso. L’unico senso è quello di riempire quel grosso buco con una dipendenza. Come detto, la sua testimonianza ci aiuterà a scavare ancora più a fondo in questa palude. Ma non è tutto. Per ogni puntata abbiamo scelto una figura che calzasse a pennello con il racconto di Carlo. Qui sotto trovate la prima…

Vi chiediamo di leggere con attenzione queste puntate e dirci cosa ne pensate. Ma non solo. Se conoscete una realtà o una storia legata a questi temi, e pensate possa essere interessante da raccontare, segnalatecela inviandoci una mail a redazione@lavocealessandrina.it, oppure chiamando lo 0131 512225.

La storia di Carlo – 1a parte

È un giovedì mattina di ottobre, piove. Sono circa le 11 quando arrivo alla Comunità Cenacolo di Montecastello, ad Alessandria. Ogni volta che metto piede in quel posto ho l’impressione di entrare in un mondo parallelo, fuori dalla nostra frenesia quotidiana, quasi distaccato dalla realtà. Ma appena inizio a conoscere le storie di qualche ragazzo capisco subito che lì, in quella casa dispesa tra le colline piemontesi, la realtà (quella vera) l’hanno toccata con mano. Ed è una realtà cruda, dura, drammatica, fatta di dipendenze, droghe, solitudine e tanta paura. Piove, dicevamo, ma entro dentro la casa: ad attendermi c’è un ragazzo che in quella realtà ci è finito dentro con entrambi i piedi, come un vortice che ti risucchia e non ti fa più uscire.

Si chiama Carlo Mariani ed ha 28 anni, compiuti ad agosto. Un ragazzo semplice, educato, con gli occhi verdi e lo sguardo sveglio. Anche lui è piemontese: è nato e cresciuto a Savigliano, in provincia di Cuneo. Ci sediamo. Chiedo a Carlo di iniziare a parlarmi della sua storia, tira un forte sospiro e poi comincia. «Posso dire di aver avuto un’infanzia felice, amavo molto i miei genitori. Poi qualcosa è andato storto. Questa situazione di benessere si è interrotta quando avevo 8 anni, perché i miei hanno deciso di separarsi. Mia madre è andata via di casa, e per la mia giovane età non mi sono state date molte motivazioni. Per qualche anno ho vissuto a giorni alterni con entrambe i miei genitori. Poi dagli 11 anni decido: vado a vivere stabilmente con mia mamma».

Gli occhi verdi di Carlo fissano il vuoto: «Da quel momento in poi ho vissuto di riflesso alle persone che mi stavano vicino: se la gente intorno a me stava male stavo male anche io, e viceversa». La situazione peggiora quando iniziano le superiori. «Mi sono iscritto al Classico, seguendo la scelta dei miei compagni. I risultati scolastici erano pessimi, e quindi ho iniziato a distaccarmi lentamente dai miei amici. Verso i 16 anni inizio a legare di più con persone più emarginate: quelli che fumavano le sigarette, che erano sempre in piazza a scioperare, quelli che bevevano il sabato sera per fare delle bravate».

E poi arriva lei: la droga… «Ho iniziato ad abusarne quando ho iniziato l’università, a Torino. Essendo lontano da casa è esplosa la mia dipendenza, in me continuava a vivere questo malessere. Sapevo che era sbagliato, ma in quel momento non avevo soluzioni. Utilizzavo principalmente cannabinoidi: hashish e marijuana su tutti. Ma nell’ultimo periodo, prima di entrare in Comunità, saltuariamente ho provato anche la cocaina».

Poi Carlo interrompe l’università verso la fine, e si trova un lavoretto da cameriere a Savigliano. «Non ero soddisfatto della mia vita, di me e dei miei amici. Lì mi sono spento: la mia vita è scomparsa totalmente dai radar. L’unica mia speranza era di sopravvivere e sperare che qualcuno si accorgesse di me. Stando in casa, spesso da solo, si è accentuato il mio rapporto con la marijuana. I miei amici hanno continuato la loro vita normalmente, e io ho iniziato a frequentare persone negli angoli più bui della mia città».

Carlo tira un altro sospiro, prende coraggio e prosegue. «Non avevo più nessun controllo della mia vita: qualsiasi provocazione, stimolo o responsabilità era ingestibile. Mi drogavo continuamente, ogni giorno ero stordito dai cannabinoidi. La mia vita poteva continuare così per 40 anni, e non mi sarei accorto di nulla…».
[continua…]

Intervista a Davide Cerullo, ex camorrista di Scampia

«Nella vita sa stare in piedi chi sa stare in ginocchio». Questa frase, detta da madre Elvira (fondatrice della Comunità Cenacolo), era alle spalle di Carlo, nella sala dove ci siamo incontrati. Ma nella vita c’è anche chi si è ritrovato a terra, steso. Nemmeno in ginocchio. Uno di questi è Davide Cerullo, classe 1974 di Scampia, che a 10 anni è entrato a far parte della Camorra. Una vita fatta di errori, crimine, soldi e droga. Già, la droga… Davide la tocca con mano, la trasporta, la spaccia, la gestisce. Ne fa anche un uso massiccio. E proprio «vendere la morte e vedere i giovani morire per l’eroina» è il rimpianto più grande che Davide ci racconta al telefono. Poi riesce a uscire dalla criminalità organizzata, con gli incontri e, soprattutto, con un incontro: quello con la Parola. Nel carcere di Poggioreale vede sulla sua branda un Vangelo: «Lo apro e leggo il mio nome, per tre volte: Davide, Davide, Davide». Oggi, quel Davide è autore di libri, fotografo ed educatore di bambini. Proprio a Scampia, dal 2017 gestisce una ludoteca, chiamata “L’albero delle storie”, in cui i bambini sono liberi di giocare, leggere, esprimersi e sognare. Dentro la cultura, la poesia, l’arte, la natura e gli animali. Ma lontani da «quel sistema infame» che è la Camorra.

Davide, ci racconti la tua storia? Partiamo dall’inizio…

«Sono il nono di 14 figli. E succede che già da bambino, dopo mia mamma, entro nella Camorra».

Perché accade?

«Perché a 10 anni mi sono mancati quegli strumenti necessari che fanno possibilmente riuscita la vita di un bambino. Più di tutto mi è mancata la famiglia, i miei si sono separati subito. Un’altra grande assente è stata la scuola: uno strumento che è il più grande atto di democrazia e di libertà, perché ti rende libero, ti dà la possibilità di scegliere. Dico sempre che si è veramente liberi solo quando si ha la possibilità di scegliere, non quando si fa ciò che si vuole. Da bambino non ho avuto la possibilità di scegliere, e ho dato retta a quel sistema infame che è la Camorra. Mi sentivo gratificato, riconosciuto, per me esisteva soltanto quello. Frequentavo persone più grandi di me: oggi la maggior parte sono morte, altre sono al “41 bis”… Era tutta gente di un certo calibro. Si servivano di me per non dare dell’occhio alla Polizia, ero piccolino e mi usavano per trasportare armi e droga».

Cosa succede dopo?

«I mie fratelli capiscono che le cose si stavano mettendo male e mi hanno portato da mio padre nel basso Lazio, a Cassino. Un giorno mentre ero a tavola, in tv vedo la notizia dell’arresto di mia mamma. In me scatta qualcosa, e decido di ritornare a Scampia: volevo andare a trovarla in carcere e occupare la nostra casa che era rimasta vuota. In realtà provavo solo piacere per il crimine».

Piacere in che senso?

«Mi piacevano le armi, a 14 ho avuto la mia prima pistola. Mi piaceva potermi vestire con le stesse marche che usavano i boss, avere il malloppo di denaro in tasca, avere la moto, le donne. Mi piaceva il potere, l’essere rispettato. Vedere la gente che tremava al mio passaggio. Questo non perché ero qualcuno, ma perché incutevo paura».

Poi ti arrestano per la prima volta…

«Sì, succede a 16 anni: mi affidano una delle piazze di spaccio di Scampia, guadagno circa 900 mila lire al giorno. Poi mi beccano e mi arrestano. Essendo minorenne la polizia non mi ammanetta, non mi riteneva nessuno. Ricordo di avergli esplicitamente chiesto di essere ammanettato, perché in tv vedevo i boss portati via con le manette al polso. Per questo credo che “Gomorra” (la serie di Sky, tratta dal libro Roberto Saviano, che racconta la vita dei camorristi nella periferia di Napoli, ndr) non debba andare in onda, perché le persone credono che quelle azioni siano riproducibili nella realtà di tutti i giorni. Questa serie ha un effetto distruttivo su coloro che ne vengono attratti, e non tutti hanno i mezzi per difendersi…».

C’è anche una seconda volta in carcere.

«A 18 anni mi arrestano e vado a Poggioreale. Lì ricevo un altro insegnamento di vita criminosa, perché finisco in stanza con grandi boss della camorra. Poi succede qualcosa… Tornando in cella sulla mia branda vedo un Vangelo. All’inizio mi vergognavo ad aprirlo, per non essere giudicato dagli altri. Lo apro e leggo il mio nome, per tre volte: Davide, Davide, Davide. La camorra ti toglie tutto, anche il nome. Allora strappo quelle pagine e riprendo il possesso del mio nome. Da lì ho iniziato un nuovo cammino, incontrando le persone giuste. E quelle parole, lette sul Vangelo, sono diventate possibilità di rinascita e riscatto. Così ne sono uscito».

Qual è la cosa più brutta che hai fatto nella tua vita?

«Vendere la morte, vedere i giovani morire per l’eroina. Nella malavita si diventa disumani, non si è più umani. Sono arrivato a un passo dall’uccidere una persona per vendicare il padre di un mio amico. Ma per fortuna non è successo».

E la fede?

«Credo che Gesù sia il più grande psicanalista e rivoluzionario di tutti i tempi. Nei tanti libri che ho letto c’erano tante parole, ma in carcere ho trovato la Parola, quella di Gesù, quella che mi ha affascinato più di tutte. Io sono continuamente in ricerca di un grande interrogativo. Non sono un credente, ma credo nella forza sanitaria della Parola. Quello è il libro che riguarda la vita di tutti. Strappare quelle pagine in cella credo sia stato un gesto dovuto, che mi ha salvato».

I giovani vivono un momento complicato: mancano dei modelli educativi? Quante responsabilità hanno gli “adulti” della nostra società?

«I primi responsabili di questa tragedia umana sono i politici: stanno in “alto” e dovrebbero dare l’esempio. Non lo sono, perché possono sbagliare pure loro. Ci sono delle realtà che si occupano della tossicodipendenza che fanno business. E la malavita in questo è padrona. La realtà è che abbiamo bisogno di una società di giovani sballati, perché fanno cassa. Non c’è l’intento vero di poter salvare questi ragazzi. Tante cose non vanno. Certo, non è sempre così, ma probabilmente dobbiamo cambiare strategia. Puntiamo di più sulle relazioni, sul teatro, sulla musica, sull’arte…».

Però si può cambiare grazie agli incontri?

«Sì, si può. Ma bisogna annullare il giudizio e il pregiudizio. Cresciamo per gli incontri che facciamo, non per i libri che leggiamo. Bisogna riportare i ragazzi a curare lo sguardo, abituare l’occhio alla bellezza e allo stupore. Per curare le parti fragili».

Anche con la poesia, come fai tu?

«La poesia è una cosa seria, bisogna stare attenti a come la si propone. Bisogna riproporre la parola, anche rischiando. Dobbiamo avere il coraggio di raccontare tutti coloro che hanno fatto della parola un senso di vita. Penso a Pasolini, Alda Merini, Majakovskij… ma per primo ovviamente Gesù. A noi possono rubare il cellulare, il denaro, la macchina, ma nessuno ci può togliere la parola. La peggior repressione si esercita verso chi è muto, così si comporta la Camorra. Allora diventa fondamentale riconsegnare la parola a tutti quei muti che abbiamo intorno».

In questa direzione va “L’albero delle storie”?

«Certamente, siamo una ludoteca che apre i propri spazi per bambini e non solo. Un ambiente che fa casa, un modo nuovo per stare insieme: condivisione, relazione, possibilità di cambiamento, gratuità. In una zona complicata come Scampia, questo spazio diventa quindi fondamentale e sanitario. L’abbiamo aperta tre anni fa, recuperando una discarica per trasformarla in un giardino aperto a misura di bambino. Da poco abbiamo anche realizzato una vera e propria fattoria, con alcuni animali. Le mamme portano i loro figli all’Albero e non vogliono più andare via (sorride). Perché qui hanno trovato la possibilità di essere capiti. Se volete conoscerci meglio, vi invito a visitare il nostro sito alberodellestorie.com».

Hai fatto pace con il Davide del passato?

«Un giorno dei Testimoni di Geova mi hanno chiesto se io credessi in Dio. Ho risposto così: “Non è questo il problema.. il punto è se Dio crede in me”. Perché se Dio crede in uno come me, allora è un Dio bello, che non può fare a meno dell’uomo, che sorride se noi siamo felici. Non è uno sterminatore che condanna. Quindi pensa quanto sia facile perdonarmi: certo che mi sono perdonato. Oggi convivo con il Davide di una volta, ci stiamo parlando, stiamo costruendo delle cose insieme. Mi piace pensare che gli irrecuperabili non esistono. I due Davide si aiutano a vicenda, uno cambia l’altro. Il presente fa capire quanto sia bello essere buono, l’altro espone il suo limite. Entrambi sono necessari».

Un’ultima battuta: rifaresti tutto da capo?

«No, se avessi la possibilità di tornare indietro vorrei essere un bambino. È un controsenso (sorride): da piccolo sognavo di essere grande e avere una pistola, oggi che sono cresciuto sogno di essere un bambino. Un bambino buono».

Alessandro Venticinque

Leggi anche le altre puntate dell’inchiesta:

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