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«I miei piedi erano incatenati, il mio cuore no»

La storia di padre Luigi Maccalli nelle mani di Al Qaeda dal 2018 al 2020

«Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Fino a quando ti dimenticherai di me?». Queste domande le avrà ripetute decine e decine di volte padre Pier Luigi Maccalli, 60enne sacerdote della Società delle Missioni Africane (Sma), rapito in Niger il 17 settembre del 2018. Maccalli, che viene da Madignano, un paese in provincia di Cremona, ha vissuto per 25 mesi in una prigione a cielo aperto: in mezzo al deserto di sabbia del Sahara, nella zona del Sahel, prigioniero di un gruppo di jihadisti appartenenti ad Al Qaeda. In catene, nel silenzio del deserto, fino alla liberazione avvenuta l’8 ottobre del 2020, in Mali.

Anni, mesi, giorni, ore, minuti e secondi interminabili. Vissuti tra sofferenza, incertezza e paura, ma alleviati con l’unica “arma” salvifica e potente con cui il missionario si è difeso: la preghiera. Costante, forte e decisiva, al punto di convertire un momento così drammatico in un’esperienza di fede e missione straordinaria, che ancora oggi porta frutti. Gli stessi frutti riconosciuti da papa Francesco, che nell’incontro in Vaticano, abbracciandolo, gli ha detto: «Noi abbiamo sostenuto te, ma tu hai sostenuto la Chiesa». A un anno dalla sua liberazione, siamo riusciti a contattare padre Maccalli nella comunità Sma di Feriole, in provincia di Padova, dove attualmente vive. La sua voce, pacata e leggera, ci parla di fratellanza e perdono. Ci racconta della Parola che rende il cuore libero, in qualsiasi condizione. Anche in mezzo al silenzio del Sahara, in mano ai rapitori, incatenato e prigioniero .

VOCAZIONE MISSIONARIA

Padre Maccalli, riavvolgiamo il nastro. Da dove nasce la sua vocazione missionaria?

«È maturata sin da subito. Dopo gli studi in seminario, vengo ordinato nel 1985 nella diocesi di Crema. E già durante i miei studi cresceva sempre più questo impegno verso la missione. Appena sacerdote vado nella casa provinciale della comunità Sma, a Genova. Poi faccio qualche mese in Francia, per imparare la lingua, e dall’ottobre 1986 vengo mandato in Costa d’Avorio nella missione di Bondoukou, cittadina del nord-est. Da lì, dopo il mio impegno in quelle terre per sei anni, rientro in Italia, a Padova, per un servizio di animazione missionaria durato quattro anni. Quindi riparto per la Costa d’Avorio, questa volta più a nord, nella missione di Bouna, e rimango fino al 2001, quando vengo richiamato a Genova perché eletto nel consiglio provinciale. Infine, dal 2007 parto per il Niger… 11 anni di missione, prima del rapimento».

Come descrive quegli anni in Niger?

«Non ho mai avuto paura, ho vissuto felicemente questa missione. Ero a Bomoanga, una realtà rurale in cui mi sono ben inserito: parlavo la loro lingua, vivevo con la gente del posto, giravo nei villaggi. Ero a casa mia, dopo 11 anni. Nulla lasciava presagire un episodio di sequestro. Certo, c’erano stati fatti gravi, come furti o banditismo, ma in quelle terre si convive quotidianamente con questi eventi. Tra i più drammatici, ricordo l’episodio delle chiese bruciate a Niamey e Zinder, nel 2015. Era una risposta ai famosi fatti di “Charlie Hebdo” (giornale satirico francese, vittima di un attentato terroristico in cui nel gennaio 2015 persero la vita 12 persone, ndr)».

IL RAPIMENTO

Poi arriva quel fatidico 17 settembre 2018.

«Era un lunedì tranquillo, mi ero già ritirato in camera e preparavo qualcosa per la Messa del giorno dopo, un pensiero sul Vangelo, che davo sempre alla comunità. Dei rumori strani, dietro la finestra, mi hanno convinto a uscire: pensavo fossero persone che di notte vengono a cercare aiuto, a chiedere un farmaco o del cibo. Invece, uscendo, mi sono trovato circondato da individui armati. Vengo legato, con le mani intorno alla schiena, e bendato. Poi mi portano fuori dal villaggio, e in moto vengo trasportato verso la frontiera con il Burkina Faso. Nel viaggio mi sono sciolto in un grande pianto. Ripetevo, con le lacrime agli occhi: “Mio Dio, dove sei?”. Ma non capivo, nella mia testa tanti “perché” affollati. Sono così arrivato in questo covo, con altra gente, e allora ho chiesto: “Chi siete?”. Rispondono: “Chiamaci jihadisti, e andrà tutto bene”. Solo lì, forse, ho realizzato che non era una rapina a mano armata, ma qualcosa di più grande».

E dopo?

«Tre giorni dopo, sempre in moto, siamo partiti per un lungo viaggio a nord, in zona Burkina Faso, fino alla frontiera con il Mali. Dal sequestro, 17 giorni di viaggio, notte e giorno, per essere trasferito in un altro covo, molto più grande. Il 4 ottobre 2018, per la prima volta, mi hanno incatenato a un albero. Legato con una catena alla caviglia, fino al 26 ottobre, poi mi hanno messo in macchina e siamo entrati nel deserto: è iniziato il mio viaggio nel Sahara, lungo fino alla fine del rapimento. Abbiamo girato da nord a sud, da est a ovest, un’infinita distesa molto varia, zone con erba o alberi, poi solo dune di sabbia, zone di pietra, e infiniti “uadi”, cioè avvallamenti con della natura, in cui quando piove scorre dell’acqua. Un deserto “multi-faccia”, in cui ero completamente perso e con tanti interrogativi, gridati: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? Fino a quando ti dimenticherai di me?” (sospira). Non erano parole di disperazione, ma preghiere fatte di lacrime e cuore».

Aveva paura di morire?

«L’ho messo in conto, era più che un’ipotesi. Maneggiavano continuamente questi fucili, li smontavano, li pulivano. E io chiedevo di girarli da un’altra parte e non puntarmeli addosso, avevo paura di un colpo fortuito. Una volta sola mi hanno minacciato seriamente di mettermi una pallottola in testa. Ogni parola e ogni gesto poteva essere mal interpretato. Mi facevo forza, dovevo resistere ed essere pronto qualora si fosse presentata un’opportunità di fuga o un negoziato. Era la preghiera continua a darmi forza. Pensavo: “La notte scura fa parte del cammino di tanti santi. Dio lo vedrò solo di schiena, quindi continuo a pregarlo, affinché non mi abbandoni”».

TRE OGGETTI NEL SAHARA

Proprio il deserto le regala tre oggetti che hanno scandito quelle lunghissime giornate. Ce li racconta?

«Nel deserto, dal tramonto all’alba, ero incatenato. Stando fermo potevo osservare tutti i limiti di questa catena, e così noto un anello non saldato. Lo riesco a staccare, ed è stato il primo regalo. Ce l’ho qui a casa, è il ricordo di tutti gli ostaggi e le persone che soffrono. Mi definivo una vittima innocente, come tanti che, per una malattia o un incidente, dall’oggi al domani, si ritrovano nella sofferenza».

Il secondo?

«È il Rosario con dieci nodi. L’ho fatto con il telo che mi copriva e riparava dal sole: era la preghiera con cui aprivo e chiudevo la giornata. Vuole essere un gesto che ricorda l’essenziale, la relazione. Quello che più pesava era non poter comunicare, ma quel Rosario mi teneva in comunione con Dio e con le tante persone dei villaggi con cui pregavo ogni giorno. Pregavo per la pace e per le periferie del mondo che soffrono. Un altro regalo del deserto, attraverso le catene… I miei piedi erano incatenati, ma il mio cuore no».

Poi c’è la croce?

«Sì, l’ho fatta tagliando un pezzo di legno, e mi ricorda un altro regalo del deserto: il grande silenzio. Sulla croce Gesù muore in silenzio, termina con due frasi: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e “perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi risorge con “shalom”, ovvero “pace a voi”. Gesù, il Verbo Dio fatto carne, sepolto nel silenzio, risorge con questa proposta di pace. E anche io, nel grande silenzio in cui ero immerso, ne sono uscito con questa parola di pace. La soluzione ai conflitti armati non saranno i kalashnikov o le bombe “intelligenti”, ma solo questa proposta di ascolto e incontro da cui potrà germinare qualcosa di nuovo. Una strada da proporre fatta di perdono e fratellanza: un annuncio di cui oggi, che sono libero, mi sento ambasciatore. Il giorno della mia liberazione, l’8 ottobre 2020, ho salutato il mujaheddin capo dei rapitori con queste parole: “Che Dio ci dia da capire un giorno che siamo tutti fratelli”. Mi spiace che non abbiano colto questo mio gesto fraterno».

IL RAPPORTO CON I RAPITORI

Anche nel suo libro “Catene di libertà” (uscito lo scorso settembre, edito da Emi) ha avuto modo di ripetere che, in questo rapimento, i veri ostaggi erano loro. Non lei…

«Sono ragazzi giovani, di cui molti analfabeti, ostaggi di questa terra ferita. Nessuno nasce violento, ma ci sono eventi che marcano e cambiano la vita di questi individui, delle loro famiglie, delle loro comunità. Non sono riusciti ad andare oltre, non avevano la curiosità di sapere chi ero veramente. Credono che l’Occidente sia totalmente contrario all’Islam, al loro stile di vita, e si sentono minacciati. Vivono indottrinati dalla propaganda che spesso passa dai telefonini che hanno tra le mani. I veri ostaggi sono loro… E per liberarli da questa situazione ci vorrà molto tempo».

Oggi prega per loro?

«Prego tutti i giorni per loro. Mi rifaccio sempre alle parole di Gesù: “Pregate per i vostri persecutori”. E l’ho sempre fatto, anche durante il rapimento. Più difficile era: “Amate i vostri nemici” (sorride). Mi sono proposto un cammino per non condannare e non giudicare. Pregare per loro è stato come dire: “Perdona loro, non sanno quello che fanno”. Ma credo che la colpa non sia solo di questi ragazzi indottrinati, le responsabilità sono più alte. Ho rivolto loro una mano da fratello, purtroppo non l’hanno colta. Ma io sono in pace con me stesso e con Dio».

MISSIONARIO, SEMPRE

Per lei cosa vuol dire essere missionario?

«Ho sempre pensato che l’icona del missionario fossero i piedi. In questi due anni di deserto mi sono reso conto che è il cuore, che pulsa e porta vita alle periferie del mondo. Santa Teresina di Lisieux diceva: “Nel cuore della Chiesa io sarò l’amore”. Ecco, la mia missione in catene era come un cuore che pregava e portava ossigeno a tutti. Ho riscoperto il valore contemplativo della missione. Dio ha agito nel cuore delle mie comunità, e di tante persone nel mondo che pregavano per la mia liberazione. All’inizio pensavo mi avessero rubato due anni di vita e di missione. Con il passare del tempo, mi sono reso conto che questo è stato il momento più profondo del mio ministero».

Proprio in queste situazioni drammatiche si fanno esperienze di fede uniche e potenti, che nella quotidianità è davvero difficile sperimentare. Non rimpiange quei momenti in cui non aveva nulla, ma forse aveva tutto?

«Premetto che non auguro a nessuno di vivere questa esperienza: ma è proprio così, in certe situazioni estreme si sperimenta il senso profondo della fede. Da quando sono tornato, nel quotidiano, cerco di vivere uno spazio di silenzio. Proprio perché il dono del grande silenzio mi ha fatto toccare con mano la parola di Dio, che non ha la stessa forza e sensibilità se non vissuta in uno spazio di silenzio. Dio è silenzio. La Parola nasce dal grembo del silenzio di Dio. Se non c’è questo vuoto, spazioso e profondo, rischiamo anche di fare tante cose, ma lontane da Dio. Un rimando tra silenzio e Parola, che tiene viva la missione e tiene in piedi il missionario. Senza questo, purtroppo, si cade soltanto in molto attivismo. Che è importante, ma non basta».

PADRE MACCALLI, OGGI

Cosa le rimane di questi due anni?

«Porto nel cuore quel cielo stellato. Una cupola di stelle che, con la notte scura, mi dava uno sguardo di speranza. Ogni notte mi addormentavo dicendo: “Oggi è andata, speriamo domani”. Pregavo sotto quel cielo, ricordando il Salmo 8: “Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”. Mi sentivo parte dell’universo… un puntino non indifferente allo sguardo Dio e al creato che appartiene al Creatore. Questo mi rimane».

Tornerà in Africa?

«Come mi ha insegnato il deserto, vivo il presente affidandomi al Signore. Sono missionario a vita, e la missione la porto nel cuore. Spero di tornare a Bomoanga per salutare e ringraziare la mia gente, ma ancora non è stato possibile, perché la situazione è peggiorata. Tornerò in Africa, quando si potrà, valutando i segni dei tempi. Adesso mi sento impegnato a vivere il perdono e l’accoglienza, come spiego nel finale del libro. Non incateniamo mai nessuno con etichette o giudizi, anche in situazioni in cui è difficile comprendere, perché il mistero della persona umana è molto più grande di quello che appare ai nostri occhi. Resto un missionario al servizio di questo Vangelo e di questa umanità, bellissima, che Gesù ci ha insegnato».

Catene di libertà

«Perché il Signore mi ha abbandonato?». È la domanda che spesso arrovella padre Gigi, in balia dei suoi sequestratori per oltre due anni tra le savane del Sahel e le dune del Sahara. Sempre dormendo, ogni notte, all’addiaccio, spesso con i piedi incatenati.

Esperienza che per diversi mesi ha condiviso con altri ostaggi. È, questo, un “quaderno dal carcere” che oscilla tra cronologia e introspezione, in cui i momenti di sconforto, accentuato dal pensiero costante dei familiari e degli amici che il missionario immagina angosciati e preoccupati, si alternano a quelli di speranza.

Senza l’ausilio di una Bibbia a tener viva la fede, sottoposto a un lunghissimo digiuno eucaristico, padre Gigi scopre in sé nuove risorse e una nuova dimensione del vivere e del credere: «È proprio in questa prova delle catene che il mio spirito si libera. Perché i miei piedi sono incatenati, ma il cuore no».

Una testimonianza drammatica, che accende nel lettore spunti di profonda riflessione ed è capace di fargli toccare con mano la forza tranquilla della fede.

212 pagine – 14 euro. Edito da Editrice Missionaria Italiana (Emi)

Con la prefazione di padre Mauro Armanino e padre Antonio Porcellato, e postfazione a cura di monsignor Daniele Gianotti

fonte: www.emi.it

Alessandro Venticinque

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