Intervista a Nicolò Carcano capomissione di Avsi in Congo
«Luca Attanasio era un essere umano straordinario, ha lasciato il segno in tutti coloro che lo hanno incontrato. Il suo carisma mi ha commosso». A dircelo è Nicolò Carcano (in foto qui sotto), capomissione in Repubblica Democratica del Congo di Avsi, la Ong italiana che opera in 31 Paesi nel mondo. Lo abbiamo contattato per raccontarci cosa sta succedendo in quella zona a est del Congo, una polveriera pronta a esplodere. Nicolò ha conosciuto l’ambasciatore solo nel febbraio 2020, qualche messaggio e alcune telefonate. Quel poco che è bastato per rimanere folgorato dal suo carisma.
«Quella dell’ambasciatore è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio» disse proprio Attanasio a Camerota (Salerno) il 12 ottobre scorso, quando gli venne conferito il premio internazionale “Nassiriya per la Pace”. Una missione che oggi, nonostante tutto, tantissimi portano avanti. Facendo il bene, senza chiedere niente, per milioni di persone, anche a costo di rimetterci la pelle in un continente così complesso come l’Africa. Il capomissione dell’Avsi accetta con grande disponibilità la nostra intervista e, prima di iniziare la chiacchierata, si presenta: «Ho 44 anni, solo uno in meno di Luca… Faccio questo lavoro da 16 anni, ma da tre vivo in Congo con la mia famiglia. E, per favore, dammi del tu…».
Nicolò, ci fai un quadro generale di quella zona?
«La tragedia è avvenuta nel nord Kivu, parte est del Congo. Quella provincia, come tutta la zona a est, è caratterizzata da instabilità e conflitti interni da ormai molti anni. Il problema tipico di alcuni Paesi del sud del mondo è l’impossibilità di rispondere alle problematiche dal punto di vista politico. Quando si hanno delle rivendicazioni da mettere in risalto si risponde con la violenza, e a farla da padroni sono i gruppi armati. Questa zona, inoltre, vanta risorse minerarie infinite, tra cui rame, oro, coltan e diamanti. E dove c’è ricchezza nasce lo scontro tra chi deve gestire i proventi».
Scontri messi in atto dai circa 125 gruppi armati solo nell’est del Congo…
«Sì, ma a parere mio, paradossalmente, più sono e meglio è. Parecchi anni fa c’erano solo tre enormi gruppi armati, quasi al pari dell’esercito. Meglio che siano frammentati, perché si scontrano tra di loro per il controllo delle zone. Sono formati da 10 o 20 disperati di 18-20 anni, che tirano colla (una delle sostanze da “sniffare”, come vernici e solventi: definite le droghe dei poveri, ndr), a cui viene messo un kalashnikov in mano. In queste zone c’è una vera e propria mancanza di controllo del governo centrale. Non parliamo di un Paese piccolo: il Congo è grande come da Lisbona a Varsavia, un continente… Da Goma alla capitale Kinshasa ci sono due ore d’aereo, le strade sono poco percorribili, fatte di terriccio e massi. Si vive in un contesto di giungla, il 90% della popolazione vive in villaggi con capanne fatte di paglia e fango, in cui non c’è niente, non funziona il telefono e i servizi sono pochissimi. Ci si sposta a piedi e si vive dei raccolti dell’agricoltura. I gruppi armati attaccano i villaggi per rubare cibo e forza lavoro, facendo scappare gli abitanti. I movimenti dei miliziani non sono prevedibili, per cui l’insicurezza è la normalità assoluta».
Da qui nascono i problemi di spostamento?
«Spostarsi è complicato, perché bisogna prima rispettare le procedure e poi fare un check della sicurezza. Ogni organizzazione ha un capo della sicurezza, un ex militare o facente parte dei gruppi armati, che attraverso i suoi contatti capisce se la zona è libera. Per esempio, il mio capo ha un cellulare con 12 mila numeri di telefono, chiama strada facendo gli amministratori dei villaggi, le autorità locali, e chiede se ha visto persone armate. Così, tappa dopo tappa, fino a destinazione. E se c’è il via libera, si può proseguire. Ma la situazione è instabile e cambia in un istante: in un momento una zona può essere definita a rischio, perché c’è un conflitto in corso, poche ore dopo non lo è più perché la guerriglia si è spostata. Noi come Ong rifiutiamo l’utilizzo delle armi, dobbiamo essere nell’imparzialità assoluta, siamo esseri umani che assistono altri esseri umani. Posso dirvi che la scorta armata non la si ottiene con facilità, devono esserci le giuste procedure. E questo vale anche per la triste vicenda della scorsa settimana».
Però, in quell’occasione, qualcosa è andato storto.
«I protocolli delle Nazioni Unite sono diversi dai nostri. Un ambasciatore, pur essendo il più alto livello della diplomazia, deve richiedere con preavviso la scorta armata, dichiarando il percorso. So per certo che il responsabile della sicurezza ha fatto proprio come vi ho spiegato sopra. Quindi la zona da percorrere era libera, e non si sono sentiti in pericolo al punto da richiedere la scorta. Poi sono arrivati all’inizio del parco dei Virunga, abitato dai “gorilla di montagna” e da quattro gruppi armati. Quello è un grande vaso, in cui ovunque metti la mano tiri su tanta merda: lo dico perché ormai sono africano, e posso permettermelo. Succede che la prima macchina del convoglio viene fermata da un colpo d’arma da fuoco che uccide il driver. È un avviso, ti fanno capire che non si scherza. Ma questo succede ogni giorno: anche a me è successo, ma è accaduto pochi giorni fa anche a un’altra Ong. Rapiscono quelli che sono sopra e chiedono il riscatto: il classico metodo di estorsione, in cui raramente ammazzano qualcuno. Nel 90 percento dei rapimenti un paio di persone vengono prese in ostaggio, gli altri li lasciano andare per diffondere la notizia e far partire la trattativa. Ma nel rapimento dell’ambasciatore c’è una dinamica davvero strana».
Tu che idea ti sei fatto?
«La versione ufficiale dice che hanno preso gli otto superstiti e li hanno portati nella giungla. A me questo non torna. Questi nuclei armati agiscono in pochi e cercano di prendere meno ostaggi, per gestire meglio il rapimento. Dal momento in cui hai due “bianchi”, e solo loro valgono già un buon riscatto, perché ti porti dietro tutti gli altri? Pare che i ranger, che fanno la guardia al parco, appena vista la scena hanno iniziato a sparare, ed è partito un conflitto a fuoco. Iacovacci ha fatto bene il suo lavoro e si è buttato sopra Attanasio. Di questi dettagli, però, non troviamo un riscontro con l’autopsia: Luca è stato colpito all’addome, quei colpi di ak47 sarebbero dovuti passare prima attraverso il corpo del carabiniere e poi arrivare a quello dell’ambasciatore. Si è parlato molto di “fuoco amico”, ma per me sono solo congetture. Il 9 marzo finisce l’inchiesta delle Nazione Unite, vedremo quali saranno le loro conclusioni. A parere mio, la verità non ce l’avremo mai. Si tratta di una dinamica estremamente complessa in un Paese che fa della complessità il suo pane quotidiano».
Che persona era Attanasio?
«L’ho conosciuto nel febbraio 2020, quando è venuto a Goma per incontrare la comunità italiana a est del Congo, formata da operatori e volontari. Si trattava di un meeting semiufficiale, eravamo in un ristorante-pizzeria italiano. Luca è arrivato, si è presentato e ci ha parlato del suo piano: voleva venire più volte all’est. Si è speso in una serie di onorificenze verso le Ong, che conosce bene perché sua moglie ne ha messa in piedi una proprio a Kinshasa. Ironia della sorte, lui diceva a noi: “Rischiate molto, siete sempre in prima linea. Arrivate anche all’ultimo miglio, all’ultimo villaggio, per aiutare, educare e proteggere”. Poi finito il discorso, mentre stavamo mangiando, sono andato a presentarmi con tutti i formalismi del caso. Ambasciatori ne ho conosciuti a decine: pensate che una volta in Tanzania ho dovuto utilizzare la formula “Sua eccellenza” per rivolgergli la parola».
Lui, invece?
«Appena mi presento si gira e mi dice: “Ciao, Nicolò!”. Sono rimasto spiazzato dalla risposta, non ero pronto. “Ma certo, la fondazione Avsi, sono contento. Senti, facciamo così, prendi il mio numero congolese se devi chiamarmi e quello italiano per i messaggi. Rimaniamo in contatto, se avete bisogno fammi sapere come vi posso aiutare”. Questo suo carisma mi ha commosso. Durante il discorso ha fatto emergere il lato più formale del suo ruolo istituzionale, ma cinque minuti dopo mi parlava come se ci conoscessimo da sempre. A quella cena c’erano anche mia moglie e alcuni colleghi delle Ong… E adesso siamo tutti sotto shock per un uomo che abbiamo visto due volte e sentito per una decina di telefonate. Se non fosse un essere umano così straordinario, non avrebbe lasciato questo segno. Adesso nessuno di noi riesce a farsene una ragione».
Nell’omelia del funerale di Attanasio, l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini ha parlato di «una terra in cui la vita non conta niente; […] dove si fa il bene e non importa a nessuno». Qual è la logica di fare il bene? Vale davvero la pena rischiare la vita?
«Queste sono le uniche parole sensate che ho sentito negli ultimi otto giorni, senza ombra di dubbio. Monsignor Delpini ha detto una scomoda e non scandalosa verità: qui si muore e non importa a nessuno. Mi chiedi: “Ha senso rischiare la pelle?”. Sì, sempre, a prescindere da quanto accaduto. Ci sono milioni di individui in una condizione sotto qualunque soglia di povertà, che vivono abbandonati a sé stessi e senza nessuna speranza. Se nasci in un villaggio, sei fortunato se non ti bruciano la capanna e se mangi una volta al giorno. Per noi le alternative sono due: o ci voltiamo dall’altra parte, oppure dobbiamo comportarci da cristiani e umani. È il nostro dovere fare qualcosa, ma è un diritto e dovere farlo nel modo migliore e in sicurezza. Facciamo la differenza per milioni di persone, senza non mangerebbero, non avrebbero un’educazione. Per noi la base di tutto è la ricerca dello sviluppo, non determinato da noi. Ma uno sviluppo da creare nelle menti e nei cuori di coloro per cui lavoriamo ogni giorno. In quella parte del mondo, violenza, disuguaglianza, fame e disperazione sono al centro di ogni santo minuto. È più facile girare la faccia, ma è davvero giusto?».
Come viene vissuta l’emergenza Covid da voi?
«Per l’Africa sentiamo sempre parlare di mancanza di sicurezza, cibo ed educazione. Poi, però, c’è il tema della salute. In questi Paesi l’emergenza Covid non esiste, ci sono parecchi casi ma un numero ridotto di decessi. Saranno morte un centinaio di persone, in alcuni casi sono gli occidentali ad averlo portato. L’aspettativa di vita media è 52 anni, mentre nei villaggi se arrivi a 35 anni è già un miracolo. Forse anche per questo l’impatto del virus è basso. Covid a parte, qui riceviamo allerte di emergenza sanitaria ogni settimana: abbiamo in corso morbillo, rosolia ed ebola, ma non abbiamo vaccini».
Ebola?
«Il 1° agosto ne è stato segnalato un altro caso, nella precedente ondata erano morte 3.500 persone. Un’epidemia che ha un tasso di mortalità pari al 70-80 percento, ma a nessuno interessa. Purtroppo la cruda realtà è che i vaccini non vengono mandati perché non ci sarebbe profitto per le multinazionali farmaceutiche. Mentre nella provincia di Ituri, molto più a nord, è in corso un’epidemia di peste bubbonica, quella descritta dal Manzoni nel 1600… dopo più di 400 anni siamo ancora in queste condizioni. In tutto questo, un grande aiuto lo sta dando la Croce Rossa internazionale, attraverso un lavoro straordinario».
L’Africa è una bomba che prima o poi esploderà?
«Purtroppo è già esplosa… Parliamo chiaramente dell’Africa subsahariana, perché per la zona del Nord è un altro discorso. Una bomba che continua a esplodere, giorno dopo giorno. Secondo le stime, nel 2050 qui ci saranno più di un miliardo di persone: gran parte di loro vivono in situazioni allucinanti, che, credetemi, non potete nemmeno immaginare. Ma nonostante tutto stanno lì, hanno un concetto di resilienza incredibile. Hai mezzo pasto al giorno, vivi in una capanna, dormi per terra, convivi continuamente con malattie varie. Non hai futuro, e se ce l’hai è in mano alla violenza o alla povertà. Credo che il “domani” dell’Africa sarà simile a quello che si vive oggi nelle periferie delle grandi città cinesi. In questi anni c’è stato uno sviluppo ineguale all’interno del sistema economico mondiale. Quando bisognerà trovare nuovi territori per costruire aziende e fabbriche, si cercherà in Africa perché ci sono enormi spazi vuoti. Un assaggio lo possiamo vedere già adesso: la maggior parte dei terreni in Congo viene coltivato a soia, che poi finisce direttamente nel mercato asiatico».
Dopo la morte di Attanasio vi sentite in pericolo?
«Non rischiamo nulla, ma ci mettiamo in gioco ogni giorno, perché siamo esseri umani. Poi se serve faremo i conti con quello che è successo a Luca. Io non li ho ancora fatti, ma non possiamo fermarci. Anzi, proprio per il tipo di persona che è Luca, questa vicenda ci sprona a fare ancora di più e meglio. Sto ricevendo tante mail e messaggi del mio staff congolese: centinaia di persone che mi fanno le condoglianze, vergognandosi di far parte di quel Paese… Siamo di fronte a una scelta difficile, mentre buona parte del mondo sceglie sempre la via più facile. Scusate se lo dico male, ma per l’Occidente il vero problema è che “l’immigrato dà fastidio, perché è diverso, è di un altro colore”. Quindi non ci si impegna neanche per capire, aiutare e non giudicare. Anche noi, qui in Africa, potremmo chiudere le missioni e smettere di lavorare, facendo vincere la violenza e la disperazione. Ma adesso dobbiamo dare una risposta, non possiamo tirarci indietro e scegliere una scorciatoia. Finché saremo tutti insieme e continueremo ad andare avanti, la violenza non vincerà mai. C’è bisogno di noi e dobbiamo stare lì. Per dare un futuro a queste persone e al mondo intero».
Alessandro Venticinque
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