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Don Cesare Pavese è tornato alla Casa del Padre

Il ricordo commosso di chi lo ha conosciuto

A pochi giorni dal 68° anniversario di ordinazione sacerdotale (avvenuta il 28 giugno 1953), giovedì 24 è tornato alla Casa del Padre don Cesare Pavese, 91 anni, cappellano dell’Istituto Michel di Alessandria.

Abbiamo chiesto a suor Natalina Rognoni, Madre superiora dell’Istituto Divina Provvidenza, di dirci chi era per lei don Cesare.

«Era una persona discreta, benevola, attenta ai poveri. E aveva un grande amore per i disabili, che ha sempre trattato come se fossero suoi fratelli. Ha sempre rispettato tutti: la sua è stata una presenza da “padre”, non solo da cappellano. Don Cesare mi diceva sempre che per la nostra fondatrice aveva un “debole”, che gli stato era stato trasmesso da sua mamma, originaria di Bassignana, dove Madre Michel andava a prendere la “provvidenza”. E aggiungeva: “Sono tornato qui, questa è la mia famiglia”».
Suor Natalina ci racconta anche questo episodio: «L’anno scorso, il 18 marzo, quando ha compiuto 90 anni don Cesare mi ha detto: “Adesso basta, è arrivata la mia ora”. E così è stato… piano piano si è preparato per il Paradiso».

Don Giuseppe Biasiolo, vicario episcopale per il clero della nostra diocesi, lo ricorda così:

«Io non ho incontrato personalmente don Cesare negli anni di gioventù, perché allora si trovava nella diocesi di Chiavari. L’ho conosciuto solo da cinque anni a questa parte, quando era già cappellano all’Istituto Divina Provvidenza ad Alessandria. Quando andavo a trovarlo, parlavamo soprattutto del suo ministero nella diocesi di Chiavari, dove si era trovato in perfetta sintonia con il clero locale, dal quale si sentiva pienamente accettato e benvoluto. Umanamente, lo ricordo come un persona molto affabile e disposta al dialogo. E infatti, poco dopo averlo conosciuto, ero diventato il suo confessore. Lì è nata la nostra amicizia, alla Michel».

Don Silvano Sirboni, parroco ai Santi Apostoli di Alessandria e amico di lunga data di don Cesare, nelle esequie di sabato 26 giugno nella chiesa del Carmine di Alessandria, ha ricordato così il confratello defunto.

«È in questa chiesa che don Cesare ha iniziato il suo ministero pastorale. Ed è giusto che qui, in un contesto di affettuosa e riconoscente preghiera e cristiana speranza, diamo oggi l’estremo saluto a quel corpo mortale, che è stato strumento della sua missione presbiterale. È in questa comunità parrocchiale, dove anch’io sono cresciuto, che don Cesare ha in qualche modo anticipato la Chiesa in uscita instaurando rapporti fuori le mura, fuori della sacrestia. Frequentava i peccatori e mangiava con loro, non senza le critiche dei soliti “benpensanti”…

Era troppo avanti per essere compreso da un ambiente clericale che, in buona fede, considerava la Chiesa come una cittadella assediata e che vedeva fuori soltanto nemici da combattere e non persone da amare. Dimenticando che Gesù percorreva le strade della Giudea, della Galilea e anche i territori pagani di Tiro e Sidone e della Decapoli… Aveva l’odore delle pecore. Don Cesare era troppo umano in un’epoca in cui, sempre in buona fede, si pensava che per essere cristiani bisognasse vivere fuori dal mondo. Dimenticando che Gesù ha rivelato Dio con la sua umanità, con la sua compassione verso tutte le miserie umane. Anche Gesù era troppo umano, mangiava e beveva… non poteva essere il Figlio di Dio… anzi fu accusato di essere indemoniato. È significativo che per anni accettò di svolgere la sua missione fra gli orfani del San Giuseppe.

Don Cesare non sopportava il fariseismo e diventava pungente di fronte a chi nascondeva la propria doppiezza dietro un’ostentata devozione. Come tutti i profeti, anche don Cesare è stato scomodo e non sempre compreso. Ma piuttosto che rinchiudersi su sé stesso preferì, di comune accordo con i suoi superiori, un volontario e momentaneo esilio nella diocesi di Chiavari, dove poté continuare la sua missione, per così dire, “borderline”, cioè sul confine, intessendo relazioni evangeliche con tutti, non con devote prediche, ma con atteggiamenti profondamente umani, di compassione e comprensione. Testimoniando una Chiesa come ospedale da campo.

La nostalgia delle radici e la devozione per la Beata Teresa Michel, succhiata con il latte materno, lo ha riportato ad Alessandria fra gli ospiti dell’Istituto Michel. E anche fra i suoi giovani, anch’essi ormai con i capelli grigi. Ha saputo radunarli ancora perché il seme che aveva sparso era buono e con loro ha dato vita al gruppo missionario presso l’istituto di Madre Michel. Abbiamo perso un buon compagno nel nostro viaggio terreno.

Forse non l’abbiamo apprezzato e contraccambiato come avremmo dovuto. Come succede troppo sovente, ci accorgiamo veramente del valore delle persone soltanto quando ci vengono a mancare. Don Cesare ci perdoni, e nella stupenda e misteriosa comunione dei santi continui con la sua compassione ad aiutarci ancora».

Andrea Antonuccio

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