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Fine vita mai

Dj Fabo, «Terminate la mia agonia»

Dj Fabo, «Terminate la mia agonia»

Chi era dj Fabo
«Sono sempre stato un ragazzo molto vivace. Un po’ ribelle, nella vita ho fatto di tutto. Ma la mia passione più grande è sempre stata la musica. Così divento dj Fabo». Con queste parole Fabiano Antoniani si descriveva, lanciando a Sergio Mattarella il suo primo appello affinché il presidente della Repubblica intervenisse sul fine vita. Aveva appena compiuto 40 anni, il 9 febbraio 2017, il dj nato a Milano, rimasto tetraplegico in seguito a un incidente stradale, che ha scelto di morire in una clinica in Svizzera. Era il 27 febbraio del 2017, accompagnato da Marco Cappato, esponente dell’associazione “Luca Coscioni”, che il giorno successivo si autodenunciò. La procura di Milano fu costretta ad accusarlo di aiuto al suicidio (reato previsto dall’articolo 580 del codice penale, che prevede una pena dai 5 ai 12 anni di carcere) e per lui iniziò il processo, arrivato fino alla Consulta. La Corte costituzionale, chiedendo un intervento del Parlamento per colmare un «vuoto legislativo», ha rinviato a settembre 2019 il verdetto sull’aiuto al suicidio. Il Parlamento però negli 11 mesi successivi non si è espresso e quindi è toccato ai giudici della Consulta decidere in materia (vedi qui a lato).

L’incidente, la paralisi e la decisione
Dopo una serata in un locale di Milano, un grave incidente cambia improvvisamente la vita di Dj Fabo, in modo irreversibile. Fabiano diventa cieco e tetraplegico e dopo anni di terapie senza esito matura la precisa consapevolezza di voler porre fine alla sua vita: «Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia».

Le parole della Corte costituzionale

Le parole della Corte costituzionale

La Corte costituzionale si è riunita in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN (Servizio sanitario nazionale, ndr), sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. La Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili, come già sottolineato nell’ordinanza 207 del 2018. Rispetto alle condotte già realizzate, il giudice valuterà la sussistenza di condizioni sostanzialmente equivalenti a quelle indicate.

Palazzo della Consulta, Roma, 25 settembre 2019

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