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Una Quaresima di sofferenza

Intervista a Filippo Agostino, responsabile della Fondazione Avsi in Siria

«Lunedì c’è stata un’altra scossa di terremoto. Sono di nuovo tutti per strada, la terra continua a tremare e la gente continua ad avere paura. Ad Aleppo vi confermo che ci sono stati altri feriti: qualcuno a causa di detriti caduti, altri invece hanno avuto attacchi di cuore. I siriani sono demoralizzati, hanno paura. Non ce la fanno più». Filippo Agostino (nella foto) ha 44 anni ed è responsabile in Siria della Fondazione Avsi (Associazione volontari per il servizio internazionale). Quando riusciamo a contattarlo si trova a Damasco, nella capitale siriana, ma è da poco tornato da Aleppo. In quella zona, nell’area tra il sud della Turchia e il nord della Siria, nella notte di domenica 5 febbraio una forte scossa di terremoto ha fatto tremare la terra.

Causando morti, feriti e sfollati. Distruggendo case, palazzi ed edifici. Nei due Paesi sono oltre 47 mila le vittime, e da settimane si scava disperatamente alla ricerca di qualche superstite miracolato. Ma le speranze di trovare qualcuno ancora vivo, sotto le macerie, si riducono sempre di più. Filippo è in Siria da oltre cinque anni e conosce bene quella terra. Una terra ferita e in ginocchio, ancora prima del sisma: da anni ci sono guerra, povertà, malattie. Situazioni e tragedie, che noi nemmeno immaginiamo, in cui anche gli operatori di Avsi donano un prezioso conforto e aiuto concreto a donne, uomini e bambini siriani in difficoltà. Nei giorni successivi al terremoto Filippo è partito per Aleppo «per coordinare i primi soccorsi, perché non c’era tempo da perdere» comincia a raccontarci al telefono.

Filippo, che cosa hai visto quando sei arrivato ad Aleppo?
«Una città demoralizzata e piena di paura. Girando per Aleppo si vedono palazzi crollati e danneggiati, sono più di 50, ma non si capisce se sia stata la guerra o il terremoto, è difficile distinguerlo. Le autorità locali si sono mosse per i primi soccorsi. Qui, a differenza della Turchia, ci sono stati meno aiuti internazionali. I primi ad arrivare, con un aereo dell’aeronautica, sono stati gli aiuti italiani. E poi gli aiuti Echo dell’Unione europea. Decisamente diversa la situazione in Turchia, pur essendo a pochi chilometri di distanza».

Qual è la situazione attuale in Siria?
«In Siria nella zona governativa si parla di 1.414 morti e oltre 2.300 feriti. Ci sono 300 mila sfollati. Ma sono già milioni le persone sfollate, internamente o all’estero, per la guerra. Questi numeri ci spingono a trovare sistemazioni e soluzioni, non solo per il breve e medio periodo, ma anche per i prossimi anni. Qui la situazione è tragica da tempo. Manca il petrolio, soprattutto a nordest non si trova benzina, perché la zona è sotto controllo curdo filoamericano. Mancano strumenti per gli ospedali. Ad Aleppo ci sono poche ore al giorno di elettricità. Nei giorni successivi al terremoto la città era al buio, pioveva e di sera c’erano -3°. Manca il diesel per i generatori, e i soccorsi sono difficili e rallentati. Sembra difficile da immaginare, ma per operare, ogni giorno, facciamo fronte a difficoltà nelle difficoltà».

In che modo vi siete attivati dopo il sisma?
«Siamo qui dal 2015, abbiamo gli uffici a Damasco e ad Aleppo. Nel 2017, proprio in queste due città, siamo partiti con il progetto “Siria. Ospedali Aperti” voluto dal cardinal Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e sostenuto dalla Cei. Un progetto con cui diamo cure gratuite negli ospedali religiosi. In Siria il 50% delle strutture è chiuso o devastato dalla guerra, quindi in situazioni complicate gli ospedali pubblici sono sovraffollati e i poveri non possono permettersi di pagare le cure. Così è accaduto anche per il terremoto: all’ospedale Saint Louis di Aleppo abbiamo curato oltre 100 feriti. E questo è stato il primo intervento».

Il secondo?
«È stato il centro di accoglienza per ospitare le persone sfollate: abbiamo accolto 132 famiglie, per un totale di 560 persone. Per 12 giorni ci siamo presi cura di loro: cibo, prodotti di igiene, pannolini, vestiti. Ma anche animazione, attività ricreativa e di supporto, soprattutto per i bambini».

Un Paese, la Siria, che ancor prima del terremoto viveva in condizioni precarie.
«Sì, è una tragedia nella tragedia. Questa popolazione ha vissuto 12 anni di guerra, con alcuni periodi davvero violenti. Come tutti, la Siria ha vissuto il Covid. E con la crisi libanese la situazione socio-economica è degenerata: questo è un Paese che ha l’inflazione al 90% l’anno, e la moneta locale è sempre più svalutata. Prima del terremoto il 90% della popolazione era in povertà, uno dei più poveri al mondo. A tutto questo si è aggiunta, lo scorso settembre, un’epidemia di colera. Sintomo anche della mancanza di manutenzione e di aiuti umanitari, perché le sanzioni internazionali, che da 15 anni sono state imposte, non permettono di rifare le condotte pubbliche dell’acqua. Queste sanzioni complicano, e non poco, anche il nostro lavoro, tra fondi e aiuti umanitari che faticano ad arrivare. Un Paese in totale disorientamento, che va aiutato non solo adesso, ma pure nei prossimi mesi e anni. L’attenzione, anche dei media, deve rimanere alta, perché la situazione rimane grave».

Fondazione Avsi in che modo opererà nei prossimi mesi, per ripartire?
«Lavoreremo per aiutare le famiglie a rientrare nelle loro case e negli spazi pubblici, come scuole e ambienti educativi. Poi occorrerà aiutarli finanziariamente: ci sono persone hanno perso tutto, non solo la casa, ma anche il lavoro. Sarà fondamentale fornire loro un aiuto mensile: parliamo di 150 euro al mese che per noi sembrano pochi, ma qui fanno la differenza. E infine, il supporto psicologico per bambini e adulti. Consentire loro di parlare del trauma, rivedere il futuro in modo positivo, e cercare di dare speranza a questa popolazione che non ce la fa più. A volte diciamo, sorridendo: “In Siria mancano solo le cavallette, e poi hanno visto tutto”. È davvero così».

Un aneddoto che ti ha colpito, e che porti nel cuore, nella tragedia del sisma?
«Tre scene. La prima, la più brutta: vedere i morti trasportati via nei sacchi di plastica. Poi cito due scene belle. Quando nel nostro Centro distribuiamo i vestiti per i bambini piccoli è sempre un’emozione vedere la loro gioia appena ricevono un semplice cappellino per ripararsi dal freddo. E ho anche nel cuore l’immagine della vita che vince sulla morte, nonostante tutto. Ci sono famiglie, ricoverate nei nostri ospedali, che sono dimezzate: figlia e padre sono vivi, mentre madre e fratello sono morti sotto le macerie. Abbiamo 300 mila sfollati e migliaia di vittime, ma ci sono donne che partoriscono e fanno nascere dei bambini. Il nostro lavoro, allora, è prendersi cura dei vivi e dare speranza. Più di ogni aiuto concreto, queste persone ci dicono “grazie” per non averle abbandonate. Per essere ancora lì con loro, e dare speranza. Questo può cambiare il futuro».

E noi cosa possiamo fare?
«Parlo sempre di responsabilità personale. Non è colpa nostra se c’è la guerra o il terremoto in un Paese del mondo. Ma abbiamo tutti la responsabilità di fare qualcosa: con le donazioni, con attività di volontariato o di lavoro. Sul nostro sito www.avsi.org abbiamo aperto una campagna di raccolta fondi, ma ognuno può donare dove meglio crede, per contribuire ad aiutare queste popolazioni in difficoltà. Non possiamo sentirci lontani e impassibili di fronte a tutto ciò, perché tutti siamo collegati».

Dove vedi Dio in tutto questo dramma?
«Insieme al cardinal Zenari, negli scorsi giorni ci ha fatto visita monsignor Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali. Durante l’omelia nella Santa Messa, ha detto: “Dio è amore, non vuole tutto questo”. Ed è così: Dio c’entra poco, non è nei Suoi piani questa sofferenza. Noi, quindi, dobbiamo metterci al lavoro per alleviare questo dolore, con l’aiuto e la forza di Dio. Dove si vede Dio? Nei bambini, che riescono a giocare felici, anche dopo il terremoto: sono la speranza per il futuro di questo Paese. Sono loro l’immagine della felicità che Lui vuole per noi. Dio lo vedo nel neonato che è simbolo di quell’amore che continua, non s’interrompe nemmeno di fronte a un evento così tragico. Un conforto che serve anche a tutti noi di Avsi per andare avanti ad aiutare il prossimo».

Quale Quaresima vivranno questi due popoli?
«Una Quaresima di sofferenza. Per fortuna l’islam e il cristianesimo convivono. La Siria è sempre stato un Paese di tradizione islamica, ma ha visto nascere le basi del cristianesimo. San Paolo era qui, a Damasco, quando fu “folgorato”. Questa è la città più antica del mondo, insieme a Gerico, ed è citata nella Genesi. Sarà un’ennesima Quaresima di sofferenza: il popolo siriano vuole riprendersi. E noi dobbiamo aiutarlo in questa strada di risurrezione».

Alessandro Venticinque

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