I volti del Collegio
«Ricordo in particolare di un ragazzo che aveva dei problemi in famiglia e possedeva un parco parole molto ristretto. Era stato tolto dalle statali e mandato da noi nella speranza di ricevere un aiuto per le sue difficoltà: abbiamo fatto proprio un gran lavoro con lui. Dato che sapeva utilizzare poche parole, ho iniziato a farlo esprimere attraverso il disegno. Un giorno ho letto in classe la novella di Pirandello “Ciàula scopre la luna” (dove un minatore, costretto a lavorare la notte, esce dalla cava e vede per la prima volta la terra illuminata dalla luna, ndr) e il suo disegno me lo ricordo come se l’avessi visto ieri: in primo piano ci sono due mani, disegnate nell’atto di spostare il terreno per uscire, e sullo sfondo il cielo stellato. Aveva rappresentato quello che Ciaula vedeva dalla sua prospettiva. Quel giorno mi sono detta: “Ecco, lui ha capito tutto”».
Maria Adelaide Pino (in foto qui sotto) ha 57 anni: attualmente lavora in un istituto comprensivo di Genova, ma da giovane neolaureata è stata docente alla scuola media San Pio V, all’interno del complesso Santa Chiara.
Maria, quando è stata la prima volta che ha messo piede nel Collegio?
«Avevo 26 anni: era il mio primo incarico da professoressa della scuola media. Ho sempre vissuto ad Alessandria ma nel 1989 mi sono sposata e mi sono trasferita a Genova: combinazione mi è stata offerta questa possibilità di insegnare e dal 1990 al 1995, fino a quando l’istituto ha chiuso, sono stata professoressa di Italiano, ho una laurea in lettere e sono diplomata in pianoforte».
Com’era la sua classe?
«Era composta da una ventina di alunni, tutti maschi! Io ero terrorizzata all’idea di non riuscire a contenere la loro irruenza (ride). Sentivo che la differenza di età tra me e loro non era poi così tanta: alle medie si va dagli 11 ai 13 anni, ma nella mia classe c’era qualche ripetente».
E come ha fatto a cavarsela?
«Anzitutto mi preparavo tantissimo e poi cercavo di “invecchiarmi”, di vestirmi un po’ da signora! (ride) Alla fine devo ammettere che è andata benissimo. Sono riuscita a entrare in empatia con loro, ho scoperto che quella era la mia vocazione. Stavo bene a scuola, mi divertivo e vedevo questi ragazzi esprimere i loro veri desideri: il voler essere riconosciuti per le loro capacità, essere capiti e compresi anche nei loro limiti. Negli anni delle scuole medie questo bisogno viene fuori con più spontaneità: al liceo tendono a “indurirsi” e a chiudersi».
Che cosa ha imparato al Santa Chiara?
«Ho capito come si fa ad avere attenzione per ogni singolo studente. Avevo colleghi più grandi che sono stati dei veri maestri in questo: il professor Teruzzi e il professor Crema. Con grande pazienza mi hanno indicato una strada educativa e didattica, lasciandomi anche la libertà di sbagliare e di imparare dai miei errori. Questo mi ha aiutato a capire che non ero lì solo per fornire conoscenze ma che questi ragazzi mi erano come “affidati”: il mio scopo era ed è quello di “introdurli alla realtà”».
Un bel ricordo che vuole condividere con i lettori?
«Ricordo gli spazi grandi e belli, ariosi, il cortile dove si giocava a calcio, spesso mi cimentavo anche io, e i gemellaggi fatti con alcune scuole del milanese, davvero esperienze arricchenti: abbiamo trascorso alcune domeniche insieme e siamo anche andati una settimana insieme in montagna. Conservo anche immagini dell’alluvione del ‘94: muri segnati dall’acqua e grande fatica nel sistemare e ricostruire, ma anche grande resilienza. A questo proposito mi torna in mente una bella bambina bionda con gli occhi azzurri che, dopo avermi vista osservare con aria sconfortata i bagni della scuola da pulire perché il personale era occupato a sistemare quanto devastato dall’alluvione, ha preso un secchio di acqua calda e candeggina e l’ha rovesciato sulle piastrelle delle pareti e del pavimento: “Ecco prof vede si fa così: adesso è tutto pulito, tra poco si asciuga!” mi ha detto soddisfatta. Forse sua mamma faceva la bidella o l’aveva visto fare da qualcuno, ma il suo spirito di iniziativa mi aveva restituito il buon umore».
Cosa direbbe ai ragazzi che vivono oggi al collegio?
«Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni studenti universitari “dal vivo”, perché ho tenuto un laboratorio presso l’Università di Genova: mi sono sembrati forti, coraggiosi, desiderosi di imparare, lontano dalla retorica degli “sdraiati” diciamo. A loro vorrei dire: la vita è un grande dono e una grande occasione, anche se a volte non sembra così. Va vissuta cercando di tenere desti i desideri, senza farsi fagocitare dalla pigrizia o dai propri umori. L’ideale sarebbe avere il coraggio di confrontarsi con le persone da cui sanno di essere tenuti in gran conto».
Zelia Pastore
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