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«La pandemia è stata una prova dura. E oggi le carceri sono “stanche”»

Intervista a Elena Lombardi Vallauri, direttrice degli istituti penitenziari alessandrini

La dottoressa Elena Lombardi Vallauri (nella foto in copertina), 54 anni, dal dicembre 2017 è direttrice delle due carceri alessandrine, casa circondariale “Cantiello e Gaeta” (detta anche “Don Soria”) e casa di reclusione “San Michele“. La pandemia ha cambiato radicalmente il mondo esterno, e inevitabilmente ha cambiato la vita anche di chi sta “dentro”. Un’emergenza dentro l’emergenza, che va sommata alle difficoltà esistenti già prima del Covid. Oggi, mentre il periodo più brutto sembra essere passato, gli istituti penitenziari, stanchi e a corto di “ossigeno”, provano a ripartire.

Dottoressa Vallauri, le nostre carceri come hanno vissuto l’emergenza Covid?

«Veniamo da periodi difficili, la pandemia è stata una prova molto dura, imprevista e preoccupante, che ha stravolto completamente tutte le procedure del carcere. Tutte, dalla prima all’ultima. Dalla sicurezza, sanitaria e di ordine, alla possibilità di ricevere persone dall’esterno, per le diverse attività, fino alla impossibilità di incontrare i familiari. Questa è una delle cose a cui tengono di più, mantenere i rapporti con la propria famiglia è necessario nel percorso di reinserimento. Era tanta la preoccupazione dei detenuti, ma anche di tutti noi, dagli operatori al personale, perché nessuno sapeva nulla di questa malattia».

Oggi, invece?

«Direi che gli istituti sono “stanchi”, sia per quello che hanno dovuto affrontare, sia per questa limitazione che c’è e continua a pesare sulla quotidianità e anche sulle prospettive. Il personale e i detenuti hanno aderito alla campagna vaccinale, compattamente, e si spera di ritornare alla normalità. Sono veramente pochi coloro che non hanno accettato di vaccinarsi, ma questo non condiziona la vita di ciascuno di noi. Condizionano ancora le norme sul distanziamento, le mascherine, le procedure di sanificazione. Ma a questo un po’ di abitudine l’abbiamo fatta».

Durante l’emergenza sanitaria ci sono state anche diverse proteste all’interno dei nostri istituti.

«Ci sono state delle proteste, e anche forti, ad Alessandria. Momenti difficili e tristi, per quanto mi riguarda, generati dalla paura, scomposta, senza razionalità, per l’arrivo di una pandemia sconosciuta. Rivedendoli, alla luce del tempo che è passato, sono eventi molto tristi, dove è emersa questa rabbia, che è comprensibile ma che non ha risolto il problema pandemico. Dobbiamo pensare che l’esplosione del Covid è stata scioccante per tutti all’esterno, ma lo è stata ancora di più per chi vive in un ambiente chiuso come il carcere».

San Michele

Dopo queste proteste si è tornati a parlare di sovraffollamento. Nelle carceri italiane sono recluse poco più di 53 mila persone, a fronte di una capienza di 47.445. Ad Alessandria quali sono i dati?

«Qui per fortuna non c’è questo problema. Negli ultimi due anni i numeri sono molto diminuiti. Contiamo circa 500 persone, nel complesso dei due istituti: 200 al Don Soria e 300 a San Michele».

Solo nel 2020, in Italia, si contano 62 detenuti che si sono tolti la vita in carcere, uno dei numeri più alti degli ultimi 20 anni. Nel 2021 siamo a 48 (fonte: ristretti.it). Sono numeri complessi da comprendere…

«È difficile dare una lettura generalizzata per eventi individuali. Immagino che la disperazione che coglie l’individuo non possa che essere aggravata da ciò che vede intorno a sé. Il carcere è un luogo a rischio, lo sappiamo. Uno degli aspetti di maggiore impegno, da parte dell’amministrazione e del personale, è intercettare e cogliere questo disagio, per prevenire affinché la disperazione non abbia il sopravvento. E poi occorrerebbe pensare, all’interno del percorso del detenuto, anche a una rete sanitaria di supporto».

Queste per voi sono sconfitte?

«Io non faccio questo lavoro con l’idea di vincere o di perdere. Chi fa questo mestiere è qui per dare delle opportunità, ma siamo essere umani e non siamo sempre così bravi a cambiare e migliorare. E, soprattutto, è difficile dare una svolta a determinate storie di vita, con ambienti e contesti particolari. Sarebbe fin troppo presuntuoso… Certamente, mi domando se avremmo potuto fare di più e come si poteva intervenite in modo diverso. Ma i bisogni sono tanti, servirebbe un accompagnamento personalizzato, attento e curato».

Dottoressa, a fine ottobre sono state depositate in Cassazione 630 mila firme per un referendum sulla depenalizzazione della cannabis, che renderebbe legale la coltivazione per uso personale eliminando tutte le pene detentive, a eccezione dei casi riferibili ad associazioni finalizzate al traffico illecito. Secondo i dati di cui disponiamo, il 35% dei detenuti è “dentro” per reati legati alla droga. Depenalizzandola si svuoterebbero le carceri?

«Svuotare non lo so, ma sicuramente si alleggerirebbe la situazione. Lavorare in sovraffollamento rende tutto sempre più difficile: non si ha spazio, si è sempre con qualcuno che ti pesta i piedi. Il tutto amplificato anche dalla pandemia. Non mi permetto di prendere una posizione… penso che negli istituti penitenziari ci debbano stare coloro per i quali la carcerazione ha una utilità. Il mio desiderio è che, per le persone che mi sono affidate, il carcere diventi un’occasione, una sanzione che porti a un rinnovamento, un’occasione concreta di provare a mettersi in gioco. In un altro modo».

Don Soria

Secondo il “Libro Bianco sulle droghe”, oltre il 36% di chi entra in carcere è consumatore problematico di sostanze. Mentre si parla di 16.934 detenuti “tossicodipendenti”, pari circa al 27% del totale.

«Un numero molto alto… Sicuramente sono tanti i detenuti che hanno problemi di tossicodipendenza, difficili da affrontare in carcere. Spesso queste persone hanno reati di spaccio, accompagnati da altri reati connessi a questo stile di vita. Il carcere, però, non è attrezzato adeguatamente per gestire queste situazioni. Si devono pensare percorsi differenti, aiutati da un supporto medico e psichiatrico, per portare risultati positivi. Questo aspetto chiaramente condiziona anche la partecipazione alle attività del carcere: spesso l’astinenza porta al malessere, e appiattisce tutti gli altri stimoli».

L’Italia è uno degli ultimi Paesi in Europa a costruire carceri. Perché?

«A vederla in modo ottimistico, possiamo pensare che lo Stato italiano abbia intenzione di intervenire con misure alternative, dando la risposta giusta in base al bisogno della persona. Sicuramente il sovraffollamento è determinante, in negativo, sulla qualità del nostro lavoro. Quale sia lo strumento per farlo bene, è complesso da dire. Occorrerebbe capire quali e quante sono le risorse che lo Stato ha a disposizione per operare con qualità. Non è una questione solo di numeri e spazi».

Le vostre attività come sono cambiate con il Covid?

«Per molti il carcere è un luogo di rinascita. E svolgere queste attività, oltre al recupero di queste persone, vuol dire anche dar loro un futuro. Durante i mesi più duri della pandemia è andata avanti la scuola, con tutte le sue difficoltà. Il forno e la falegnameria hanno continuato a funzionare, con interventi organizzativi e sugli spazi per cautelare la salute di tutti. Poi, riducendo le visite dei familiari, è nata la possibilità di attivare i collegamenti in video. Questo ha consentito a persone che hanno i parenti lontani di vedersi anche dopo anni. Mi hanno raccontato di momenti davvero commoventi. Non hanno mai smesso di aiutarci le associazioni di volontariato e tutte le risorse “esterne”. La rete non si è mai interrotta, hanno continuato a starci vicini, anche distanti eravamo presenti l’uno all’altro. La pandemia non ha creato fratture ma ha unito ancora di più. Adesso, con le misure di distanziamento, le attività stanno riprendendo tutte. Spero che la gestione dei problemi collettivi sia meno pressante e consenta di concentrare più energie sui bisogni dei singoli, operatori e persone detenute».

Un augurio, da qui ai prossimi anni, per le nostre carceri.

«L’augurio è che si possa lavorare sempre meglio. Se c’è una cosa che il carcere deve fare è migliorare, ogni giorno di più, la propria qualità».

Cosa vuol dire per lei fare questo lavoro?

«Vuol dire cercare di dare il mio contributo a questa società, provare a essere utile dando un’opportunità a chi la vuole cogliere. Personalmente sono piena di speranze. Credo nelle persone, nella loro debolezza e, soprattutto, nella loro forza di ricominciare da zero. Anche quando farlo sembra impossibile».

Alessandro Venticinque

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