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C’è un tesoro nascosto nella nostra Curia

In anteprima, il professor Luciano Orsini ci svela “l’album di famiglia” degli Inviziati

Entrando nel cortile del Palazzo vescovile, in via Vescovado 1 ad Alessandria, si gira a destra e si entra in portineria, che comprende anche l’ufficio del Vicario generale, monsignor Gianni Toriggia, e del cancelliere, don Elio Dresda. Eppure, a breve qualcosa in quei locali potrebbe cambiare: non solo per la Curia alessandrina, ma anche per la nostra città. E non solo… Abbiamo chiesto al professor Luciano Orsini (nella foto in alto), delegato vescovile ai Beni culturali della Diocesi, di spiegarci bene che cosa sta succedendo. Sembra essere qualcosa di importante, non solo per gli appassionati di storia dell’arte.

Professor Orsini, che cosa sta succedendo nel Palazzo vescovile?

«Abbiamo scoperto una realtà sensazionale, che da secoli sfuggiva a tutti gli occhi rivolti verso i soffitti degli ambienti della Curia. Sono tavole di legno dipinte, che rappresentano personaggi e animali coevi alla costruzione del Palazzo, le cui “fotografie” sono rimaste impresse grazie a una abilissima mano di pittore, al momento ignoto. Per spiegarmi, però, ho bisogno di fare una premessa…».

Certamente.

«Va detto, innanzitutto, che è vero che con l’accesso dalla strada al cortile noi entriamo in una realtà che oggi identifichiamo come Palazzo vescovile, ma la storia è ben più antica. Questo Palazzo non è nato così, lo è diventato dopo. I primi ad avere avuto un interesse alla costruzione del Palazzo sono stati gli Inviziati, nobile famiglia alessandrina, anche se molto probabilmente hanno raccolto una realtà preesistente, e che non è difficile immaginare possa essere coeva alla realizzazione urbanistica della città: quindi andiamo al XII secolo, come origine. Effettivamente, questo è un Palazzo che ha origini tardo-gotiche, che gli Inviziati hanno adattato alle loro esigenze familiari».

Chi erano gli Inviziati?

«Erano una famiglia antichissima. Il Ghilini parla del capostipite Inviziati ponendolo nella seconda metà del XIII secolo, e quindi siamo molto vicini alla fondazione di Alessandria. Erano una famiglia di nobiltà acquisita, il cui ramo principale svolgeva attività di natura politico-commerciale in città. Prendono possesso del Palazzo e fanno le migliorie del caso, collocando al piano terreno tutte le realtà utili ai loro commerci e alle loro esigenze amministrative, mentre il piano superiore è destinato alla residenza dei proprietari. Tutto questo si mantiene nel tempo, dopo di che gli Inviziati riducono la loro presenza ad Alessandria e vendono l’immobile a una famiglia locale, che ne prende possesso e immediatamente lo aliena a favore del Vescovo. Siamo all’inizio del XV secolo. La realtà strutturale è quella che vediamo ancora oggi ed è stata opera del Vescovo Trotti, fatti salvi i vari adeguamenti che nel tempo si sono succeduti, in ragione del fatto che da palazzo nobiliare e residenza dei proprietari diventa la residenza del Vescovo, con tutte le pertinenze. Vi era l’esigenza di collocare una Curia, al piano terreno, dove si trova ancora oggi. In quegli uffici il salone dei Vescovi era la parte più importante, anche se successive modifiche l’hanno ridotta consentendo di poter allestire altre pertinenze delle quali oggi abbiamo memoria visiva: cioè la camera del Vicario generale, la camera della Cancelleria, la camera dell’amministrazione, il salone dei Vescovi ridotto e poi la parte dell’archivio. Qui possiamo datare la nostra vicenda, a partire dal XIII secolo, per arrivare a ciò che noi oggi vediamo, cioè le attività architettoniche di modifica tra il XV e il XVI secolo. Ma all’interno degli attuali locali della Curia sono rimaste integre le soffittature che sono cassonettate e sono incredibilmente istoriate, secondo l’abitudine dell’epoca».

Dopo la premessa, torniamo al punto.

«Abbiamo scoperto delle straordinarie rappresentazioni pittoriche, una sorta di repertorio iconografico che si riconduce a un album di famiglia degli Inviziati, e non solo di loro: addirittura di coloro che prima degli Inviziati abitarono questo Palazzo, e poi, in successione, di quelli che lo hanno abitato dopo. Per esempio, le soffittature che noi abbiamo delle varie camere cassettonate, dipinte secondo il modo di fare del XIV e XV secolo. Nella fascia immediatamente sottostante al soffitto della sala dei Vescovi, c’è la raffigurazione dei Pastori alessandrini: in origine erano 15, mentre oggi sono ridotti a un numero pressoché dimezzato, perché il tramezzamento del salone ha comportato che alcune immagini, che erano dall’altra parte, siano state sacrificate e assorbite dal tramezzo. Probabilmente nel prosieguo dei nostri lavori può essere che nella fascia oggi collocata nella sala contigua e coperta da intonaco pittorico, tornino a essere rappresentate nuovamente».

State facendo i lavori, ma quello che avete scoperto è davvero straordinario.

«Sì, è veramente straordinario. Si tratta di un album di famiglia, non solo figurativo, ma anche zoomorfo. Perché non hanno dipinto soltanto gli esseri umani, ma anche di quegli animali domestici che, in qualche modo, allietavano la vita delle persone ritratte. Io da tempo intuivo che i soffitti potessero essere riconducibili, in quanto a datazione, a un tempo decisamente lontano da noi. Tuttavia la scarsa illuminazione dell’ambiente, prevista da metà altezza verso il pavimento, mi ha sempre lasciato nel sospetto. Da lì, le mie insistenze nei confronti del Vescovo, monsignor Gallese, a cui ripetevo: “Ci sarà sicuramente una sorpresa, le premesse ci sono tutte”. Il Vescovo, dimostrando assoluta sensibilità ma anche curiosità di sapere, ha dato il via libera e siamo partiti con un primo saggio di tassellatura, in concomitanza con la disponibilità della Conferenza Episcopale Piemontese nei confronti degli interventi sugli Episcopi. Quindi, l’unione di questi due fattori ha dato il via a un intervento progettuale che oggi ci mette in condizione di poter dire, finalmente con certezza assoluta, che le meraviglie che questi soffitti possono essere ricondotte alle prime tre in Europa. Questo anche a parere di alcuni rappresentanti dell’Unesco che sono venuti a verificare, non in ragione dei restauri, ma già in precedenza. Molte di queste cose non si conoscono “in loco”, ma vengono apprezzate più facilmente dall’esterno…».

Quando avete iniziato i lavori di restauro, e a chi sono affidati?

«Abbiamo iniziato a giugno, e i restauri sono stati affidati alla ben nota capacità professionale e intelligenza della dottoressa Silvia Balostro, che per noi è un riferimento in ragione dei restauri lignei e anche dei restauri dipinti su tavola. È lei che sta portando a conclusione il restauro del “Compianto” di Castellazzo, un’altra magnificenza artistica su cui si sta lavorando da anni. Aggiungo una cosa: così come per la parete del giudizio della Cappella Sistina, non si tratta di un “restauro” vero e proprio, ma di una accurata “pulitura”».

Tempi previsti?

«Intanto va detto che l’intervento di oggi riguarda esclusivamente due ambienti: quello occupato dall’ufficio del Vicario generale e quello della Cancelleria. Termineremo entro l’inizio del prossimo autunno, a ottobre. Naturalmente queste sono le premesse di un intervento complessivo che certamente porteremo a termine».

Guardando le immagini delle pitture “ripulite”, si resta effettivamente stupiti dalla qualità della conservazione e dal colore.

«Colpisce soprattutto il mantenimento cromatico dei vari pigmenti utilizzati. Possiamo dire che chi le ha commissionate non ha assolutamente badato a spese. Perché la qualità, la raffinatezza, l’esecuzione di queste decorazioni è straordinaria. Per fare un parallelo con un ambiente che conosco molto bene, avrei difficoltà a dire che nel Palazzo Apostolico Vaticano ci sia un equivalente, considerando la stesura del dipinto su tavola. Qui non parliamo di affreschi, ma di una pittura fatta su base lignea, a modello di una miniatura. C’è una sorta di raffigurazione dove anche le immagini zoomorfe sono rese in funzione della bellezza delle raffigurazioni ritrattistiche umane che le accompagnano. Poi c’è l’azione: chi all’epoca alzava gli occhi e guardava queste immagini aveva la netta sensazione di trovarsi in un ambiente le cui raffigurazioni pittoriche rendevano la vivacità del movimento. Per esempio, guardiamo questa questa immagine femminile (vedi foto a lato, ndr): rappresenta una plasticità di dolcezza, quasi che questa ignota signora, di cui purtroppo non conosciamo il nome ma sappiamo appartenere agli Inviziati, ci stesse dicendo: “Guardate, guardate bene perché queste sono meraviglie”. Catturando l’occhio dell’osservatore».

Sappiamo chi è l’autore di questi capolavori?

«No, non c’è una firma, ma non escludo che in qualche modo l’autore salti fuori. A quel punto, con uno studio di carattere genealogico, potremmo anche capire chi sono i vari personaggi. Ogni immagine ha a fianco lo stemma nobiliare: e da quello si può arrivare a riconoscere qualche figura. Compaiono, non direttamente ma effettivamente, anche i Visconti: c’è il “Biscione”, ogni tanto, e non dimentichiamo che Alessandria era nel Ducato di Milano. Era un segnale, un legame di benevolenza».

Per un visitatore attento questa scoperta che “forza” ha?

«Il visitatore, sensibile o meno a una sorta di rappresentazione come questa, non può esimersi dal notare quanto Alessandria, in quel periodo, fosse importante. Lo dico senza esagerare, ma è difficile trovare un analogo a Firenze ed in altre prestigiose realtà artistiche italiane… Ma noi ancora adesso sottovalutiamo la nostra città per quello che è stata, considerandoci “grigi”, anonimi. È come avere un tesoro in giardino, camminarci sopra per secoli e poi scoprire che il tesoro c’è ancora ed è integro. Desta meraviglia che oggi, a distanza di circa 600 anni dalla loro realizzazione, queste tavole siano ancora disponibili nella loro integrità, come se le avessero dipinte ieri, o quasi. Va anche detto che bisogna dare merito alle varie sensibilità dei Vescovi che si sono succeduti nella gestione del palazzo: a partire da Giosuè Signori, che resse le sorti della Chiesa di Alessandria per un tempo molto breve, dal 1918 al 1921, con una sensibilità talmente spiccata da ordinare l’esecuzione di interventi di restauro conservativo. E se consideriamo che quella di cui stiamo parlando era “solo” la foresteria degli Inviziati, al piano nobile che cosa avremmo potuto trovare? Monsignor Milone, che fu il successore di Signori, fece poi fare un intervento, diremmo oggi, di adeguamento termico, abbassando i soffitti con la “cannettatura”. Ecco, questi interventi sono stati la salvezza di ciò che vediamo oggi. Successivamente questa sensibilità, che si era interrotta dopo l’episcopato di Gagnor, è ripartita con Maggioni e ha trovato terreno fertile con monsignor Charrier, che non ha permesso che si danneggiasse l’esistente. E così arriviamo ai nostri tempi con monsignor Gallese, che alla vista di quanto abbiamo scoperto finora si è meravigliato molto. Lo ringrazio per la sua grande disponibilità».

Tutto questo diventerà mai un museo?

«Questa è la premessa per la realizzazione di qualche cosa che sta per venire, ma il cui seme ha già iniziato a germogliare. Non è un intervento fine a se stesso, non terremo tutto chiuso. Anche perché la sensibilità del Vescovo nei confronti di questa ipotesi è reale. Non dimentichiamo che, nonostante l’apparente semplicità, questo Palazzo vescovile è considerato tra i migliori Episcopi d’Italia. Non si tratta di grandiosità magnificente, tanto da rimanere stupiti per il numero delle sale: si tratta di una struttura che ha una consistenza che nel tempo non si è modificata».

Quindi un giorno si potrà visitare?

«Io, per una sorta di presunzione che non mi è tipica ma che mi piace comunque manifestare in questo caso, direi che potremo visitare queste sale, finalmente libere dalla polvere del deposito del tempo. Una polvere che, però, è stata “complice” della loro stessa conservazione».

Vuole fare un appello a qualcuno?

«Il primo appello lo rivolgo al mondo, perché arrivi finalmente a rendersi conto di quello che possediamo: in ogni angolo della terra ci sono dei capolavori, ciascuno secondo le ragioni della propria origine e cultura. In secondo luogo, sappiano gli alessandrini di che cosa sono virtualmente proprietari e custodi, in ragione del fatto che queste realtà artistiche, una volta scoperte, non possono restare ignote ma devono tornare a vivere. Ovvero, devono tornare a vivere nel confronto tra lo sguardo dei visitatori e gli occhi, assolutamente vivaci, fissati sulle tavole: perché quegli occhi ci guardano. Ecco, facendo parlare queste immagini, esse ritornano ad avere quella sensibilità che dovrà dipingere Alessandria non come una città grigia, ma come una città incredibilmente viva, ricca di un patrimonio artistico che può sicuramente reggere il confronto con altre ben più note realtà».

Però non le sembra che manchi una regia?

«Verrà. Noi facciamo passi brevi… La Fondazione a Palatium Vetus ha fatto la scelta incredibilmente coraggiosa di andare all’origine, e così hanno trovato quel che c’è. Altrettanto stiamo facendo noi anche in previsione di una loro fattiva collaborazione: un processo, con un programma incredibilmente coraggioso. Queste cose le abbiamo, certo, ma non sono solo nostre. Noi dovremmo essere cauti custodi, mantenendo quello che c’è e, in seconda battuta, mettendolo a disposizione di tutti. Qui stiamo parlando di una realtà che, a detta dell’Unesco, potrebbe rientrare nelle prime tre opere d’arte di questo tipo in Europa. Potremmo avere un contesto analogo forse in Austria o in Inghilterra, per capirci…».

Molto, molto bene. Appuntamento a…?

«Adesso non so dirvi se sarà visitabile il 31 ottobre o il 1º novembre 2023 (sorride). Ma voi cominciate a segnarvi in agenda di venire a visitare queste meraviglie!».

Andrea Antonuccio

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