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Ma chi ti invoca se prima non ti conosce?

“Fede&Psiche” di Enzo Governale

Come vi siete nutriti in queste settimane? Ci siamo lasciati proprio con questo tema nella scorsa puntata. Oggi proviamo a compiere ancora un passo nel nostro percorso, passando dalla parte di chi “consegna” all’altro il nutrimento. Dopo aver incontrato Cristo, difficilmente sarò in grado di trattenere ciò che quell’Incontro ha fatto scaturire in me. E quindi cosa faccio? Provo a raccontarlo, a comunicarlo, diventando così il tramite tra il nutrimento e il nutrito: ma come posso conservare intatto questo cibo, senza trasformarlo in qualcos’altro?

Secondo la mia (ma credo anche vostra) esperienza, nella comunicazione conta molto di più ciò che arriva, cioè la sensazione che si attiva nell’interlocutore, dell’intenzione di chi comunica. Anche le intenzioni personali sono determinanti, ma ciò che determina l’efficacia del comunicare è ciò che l’altro effettivamente percepisce e non ciò che io avrei voluto percepisse.

Come ci ricorda Platone, quando comunichiamo dobbiamo cercare di essere il più “strategici” possibili riguardo l’effetto che vogliamo ottenere: «Un discorso chiaro e perfetto è determinato da quattro cose: da ciò che bisogna dire, da quanto bisogna dire, dalle persone a cui bisogna rivolgersi e dal tempo in cui bisogna dirlo». In quattro parole: contenuto, precisione, interlocutore e tempo.

Bisogna partire dal concetto che ciò che vogliamo dire dev’essere utile a chi ascolta e non a chi parla. Il tipico esempio sono quegli oratori a cui piace ascoltare la propria voce e per questo motivo tengono i loro interlocutori sul confine della comprensione, diventando loro stessi il contenuto del loro discorso.

La precisione di cui parla Platone ci dice che ciò che devo raccontare durante un discorso deve essere semplicemente ciò che è sufficiente per farsi capire, né più né meno. Occorre accompagnare chi ci ascolta evitando di catapultarlo all’interno di un mondo che non conosce, altrimenti si sentirà perso.

In questo senso, conoscere il nostro interlocutore, in termini statistici, di studio o personali, ci permette di settare bene questi primi punti: cosa fa bene ai miei ascoltatori? Quanto posso dire loro? Riguardo al tempo, il suggerimento è semplice: non è solo una questione di durata del discorso, ma della sua contestualizzazione nel “tempo” del nostro interlocutore, ovvero nel momento più opportuno del suo cammino.

«Diversamente – conclude Platone – non si parlerà bene e si andrà incontro a un insuccesso» e gli applausi che sentiremo al termine del nostro racconto saranno il suono dell’urlo di liberazione dei nostri interlocutori: finalmente ha terminato!

Sembra di “artificializzare le proprie emozioni, il proprio vissuto, ma dobbiamo cercare di progettare il nostro modo di raccontare l’incontro con Cristo perché il frainteso è alla base di qualsiasi “insuccesso” relazionale e comunicativo. Per esempio, se parlo di cose che non conosco bene, che non ho vissuto in prima persona, o se parlo di argomenti che non condivido nella mia vita, il mio interlocutore potrebbe fraintendere il mio discorso: dice di non farlo, ma è lui il primo a farlo.

Al contrario, saper comunicare efficacemente significa raggiungere gli obiettivi prefissati con la massima efficacia, perché si tiene conto di tutti gli elementi che potrebbero portare al “frainteso”. Un piccolo trucchetto, che ho imparato dal geometra della scuola guida in cui ho preso la patente, è l’utilizzo della ridondanza: ovvero evidenziare lo stesso messaggio utilizzando schemi comunicativi simili o del tutto differenti. Ridondanza, e non ripetizione. Se la ripetizione si focalizza sugli aspetti sintattici, la ridondanza si concentra sull’aspetto semantico, ovvero sul significato che vogliamo trasmettere, riproposto in forme diverse e alcune volte suggestive.

Ma la cosa più importante di cui dobbiamo tenere conto è che non basta cercare di essere dei buoni comunicatori, occorre anche essere testimoni credibili. Se mi sono nutrito di ciò che racconto, allora sarò più credibile. Per questo nella Chiesa i testimoni sono molto importanti, e per questo alcuni testimoni sono dei biblisti ma non tutti i biblisti sono testimoni dell’incontro con Cristo. La consegna del nutrimento che abbiamo ricevuto è la Tradizione (dal latino tradĕre, ovvero consegnare) della Chiesa: la trasmissione ”viva” dell’incontro con Cristo. Questa trasmissione viva, dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, compiuta nello Spirito Santo è chiamata Tradizione, in quanto è distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene sia a essa strettamente legata.

Lascio a Sant’Agostino la sintesi di questo piccolo passo che abbiamo fatto insieme, con l’incipit della sua opera “Le confessioni”, grande esempio di comunicazione strategica: «Dammi grazia, o Signore, di riconoscere appieno, se prima ti si debba lodare o invocare, se la conoscenza di Te debba precedere l’invocazione. Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per un’altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma come si invocherà colui in cui non si crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?».

Enzo Governale

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