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Tra domande e fallimenti

Fede e medicina di Franco Rotundi

Essere orgogliosi di curare e guarire

Molte sono le domande che un medico si sente porre oggi, durante la sua attività professionale, vorremmo dire durante la sua missione. Molte domande in più rispetto al passato, quando il progresso scientifico non era come oggi, quando i pazienti erano meno informati, meno acculturati di oggi e forse, in definitiva, si affidavano più alla “Persona “ del medico, che alla scienza medica. «Dottore, mi faccia capire; perché non facciamo questi esami, anche se non ho sintomi, ma prevenire è meglio che curare»: giusto, senza alcun riferimento alla miriade di esami di oggi e alla spesa sanitaria. «Dottore, perché proprio a me è capitata questa malattia, possibile che non se ne conosce ancora oggi la causa?». «Dove si è sbagliato, e soprattutto chi ha sbagliato se questo paziente non è guarito, dopo una terapia medica o chirurgica?». Abbiamo detto che il progresso della medicina ha prodotti moltissimi successi, ma ha creato molte più aspettative, soprattutto da parte del paziente. Oggi difficilmente si accetta un “fallimento”, peggio una “impossibilità” di una terapia per ogni tipo di malattia.

Lo stesso medico o chirurgo che diceva, soltanto 30 anni fa: «Non c’è nulla da fare» e veniva ringraziato, oggi viene rifiutato, se non addirittura insultato o aggredito, come colui che non sa o non vuole curare. Le cure mediche degli ultimi anni hanno allungato la vita media delle persone nel mondo, assieme alle migliorate condizioni economiche e sociali, nel senso che molte persone sopravvivono molti anni, anche in condizioni “dignitose”, posto che la Vita è sacra, e non si misura solo sulla “dignità” di questo mondo. Tuttavia la medicina per tutti non ha eliminato per nessuno la morte, nemmeno la sofferenza: l’ha diminuita, l’ha cambiata, ma l’una e l’altra fanno parte imprescindibile della nostra Vita. È sicuramente migliorata la cura delle malattie, ma non sempre, forse proprio per una certo distacco dalla Fede in Dio, è migliorato il rapporto tra il paziente e la sua malattia, e tanto meno il rapporto medico-paziente. Fanno riflettere le parole del bellissimo Salmo 89, scritto circa 3.000 anni fa: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore: passano presto e noi ci dileguiamo». Gli anni sono aumentati, di una decina (in tremila anni), per molte più persone. Penso però che il medico debba essere orgoglioso di curare e di guarire. Più degli altri però dovrebbe avere un afflato sulla vera vita, la vita Eterna.

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