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Intervista esclusiva – «Il ‘68? Uno psicodramma»

«Chi parla è Mughini». Così ci risponde al telefono Giampiero Mughini, giornalista, scrittore, opinionista, tra le personalità più eccentriche del panorama italiano. Lo contattiamo per farci raccontare la sua esperienza del “Maggio francese” del 1968, che lui ha vissuto per le strade di Parigi. La sua storia, le sue idee e le sue sensazioni di quel periodo sono raccontate nel suo ultimo libro “Era di maggio. Cronache di uno psicodramma”, edito da Marsilio. Sotto la lente d’ingrandimento anche il ‘68 italiano: in particolare a Catania, città natale dell’autore, dove il giovane Mughini nel dicembre del 1963 fonda e dirige la rivista “Giovane critica”, che accompagnerà quella generazione alla nascita del ‘68.

Nel suo libro lei scrive: «Allora, cosa è stato il ’68 francese? Una meravigliosa messa in scena». Cioè?
«Una messa in scena, sì, ma non nel senso riduttivo del termine. “Messa in scena”, perché Parigi era un grande parco teatrale. Era il 1968 e la capitale francese era al centro della cultura occidentale, la lingua francese era la lingua per eccellenza. Per me, giovane universitario, sapere il francese era come imparare a respirare. In questa città, dove vivono moltissimi giovani universitari, avvampa a un certo punto lo spirito della ribellione, dell’immaginazione, della fratellanza calda e rovente tra ragazzi di nazioni e lingue diverse che mettono a fuoco un brillante coro della ribellione generazionale. E quindi, quasi per caso, la contestazione nasce a Nanterre, sede distaccata dell’università parigina, diffondendosi dopo nell’università Panthéon-Sorbonne. Da quel momento il Paese si mobilita con 10 milioni di scioperanti».

Come è nato il ‘68? E perché in Europa è partito dalla Francia?
«Possiamo dire che il ‘68 è il risultato delle febbre causata dalla guerra del Vietnam. In Francia fino a maggio non c’erano stati sintomi particolari, il “movimento” scatta quasi improvvisamente. Tre settimane nate dal nulla che si sono spente subito dopo».

In Italia invece cosa cercava la vostra generazione?
«Cercava tutto pur non sapendo nulla (ride). In Italia c’erano condizioni più arretrate. In Francia il partito comunista era molto forte e la partecipazione alle contestazioni era notevole».

De André cantava: «Lottavano così come si gioca, i cuccioli del maggio era normale». Ma lo sentivate veramente come un gioco, o per voi era qualcosa di più?
«“Gioco” non è una parola di poco conto. Gioco è una parola importante come la politica. Io ho capito che era un gioco con la “G” maiuscola che includeva il nostro corpo, le nostre menti, la nostra quotidianità. A Nanterre tutto nacque perché le donne e gli uomini vivevano in alloggi separati. Un altro aspetto che pochi ricordano è che a Parigi in quelle settimane non pioveva, cosa molto insolita in primavera. E quindi i cortei potevano essere svolti al meglio».

Perché ha deciso di sottotitolare il suo libro “Cronache di uno psicodramma”?
«Perché io penso che alla fine ci sia stato molto dello psicodramma, così come lo aveva definito il sociologo Raymond Aron».

Una frase, in riferimento ai giovani contestatori a Valle Giulia, presa da “Il Pci ai giovani!!” di Pier Paolo Pasolini: «Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente». Ma questo ‘68 di chi è stato: dei giovani, degli operai o dei “figli di papà”?
«A Parigi è stato degli studenti. C’erano anche figli di papà, ma pochi di noi lo erano in quella città che io conoscevo. Pasolini parlava come poeta e non come sociologo, e quindi sceglieva chi criticare».

La Chiesa ha influito, o è stata influenzata dal ‘68?
«Che la Chiesa sia stata influenzata non c’è alcun dubbio. Non so però in che modo abbia influito. Sinceramente io ho fatto un liceo religioso e confesso che quell’atmosfera per me non è un ricordo favorevole. Ai tempi si discusse molto per il referendum sul divorzio: noi al proposito credevamo che ognuno avesse il diritto di scegliersi un’altra vita».

Possiamo quindi dire che gli anni di piombo sono figli del 68?
«Come in una famiglia, se nascono quattro figli ognuno è fatto a proprio modo e prende proprie strade. Alcune culture del ‘68 legate all’ideologia comunista e leninista facevano della resistenza una cosa molto virile. Io le ho combattute da quando avevo 25 anni per tutta una vita. Quando hanno ammazzato Luigi Calabresi, un mio amico mi ha raccontato che in un liceo torinese un’intera classe scattò in piedi ad applaudire, venuta a conoscenza dell’omicidio. Ma io ho sempre sostenuto che quello fosse un assassinio degno dei delinquenti».

Che cosa le ha lasciato quel periodo a Parigi?
«Mi ha lasciato di quella città meravigliosa le librerie, i caffè, i viali, le ragazze parigine che ci guardavano dall’alto verso il basso. E poi che una società può cambiare improvvisamente interrogandosi… ecco, questo mi è entrato nelle ossa».

Alessandro Venticinque

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