I volti del Collegio
I tavoli sono stati portati fuori, per cenare sotto i portici e godere della brezza estiva e delle luci del tramonto. La tovaglia, i piatti e le posate ricalcavano i colori del logo del Collegio: azzurro pavone e giallo luminoso, perché la cura e l’amore si vedono nei dettagli. Il menu? Pizza al metro per tutti i gusti, birra e una torta di pasticceria. Giovedì 10 luglio al Collegio Santa Chiara l’equipe educativa ha voluto celebrare la sessione estiva dei ragazzi con una cena insieme, che aveva il sapore di un ritrovo di famiglia. Ma cosa c’è di diverso rispetto a una normale cena di fine anno?
«A me stare in Collegio, a cena come durante tutto l’anno, fa stare proprio bene. Ho sempre sognato di stare in un posto con ragazzi universitari di età diverse e che frequentano facoltà diverse, un po’ come in un College americano». Emanuele, 21 anni, originario di Assago (alle porte di Milano) non ha dubbi: «Io qui ho trovato delle amicizie forti, qualcosa di indubbiamente speciale e che non mi aspettavo. Ero sicuro che avrei attaccato bottone con qualcuno prima o poi, ma non pensavo che avrei stretto rapporti saldi con venti persone! Litighiamo ma ci vogliamo sempre bene, proprio come in una famiglia».
Emanuele, cosa rende più bello vivere in Collegio rispetto allo stare in una città ricca di stimoli come Milano?
«Io vivo ad Assago: rispetto ai miei amici di Milano sono più isolato, per uscire ad incontrarli devo farmi una scarpinata, prendere la macchina o la metropolitana. Qui mi basta aprire la porta della mia stanza per trovare tutti. Se si deve uscire la sera, si parte tutti insieme. Se si deve studiare, ci si dà una mano. Milano è sicuramente una città viva, ma è anche molto dispersiva. Qui possiamo mangiare insieme, giocare a carte, guardarci un film. In questi lunghi mesi di lockdown, mentre i nostri coetanei erano chiusi in casa, magari con i genitori, noi ci supportavamo e sopportavamo (ride) a vicenda».
Perché sei venuto in Collegio?
«Attualmente sono iscritto alla Facoltà di Medicina dell’Università del Piemonte Orientale. Il primo anno ho fatto avanti e indietro tutti i giorni. Mi svegliavo alle 5, prendevo il treno alle 6.40 e tornavo a casa per le 15. Avevo ritmi stupidamente incessanti e rigorosi. Ho raccontato anche a Carlotta (la direttrice del Collegio, ndr) che dormivo 3 ore a notte: un quantitativo assolutamente non salutare per un ragazzo di 20 anni. Quando ho trovato il bando del Collegio sul sito dell’Upo non ci ho pensato due volte: ho sempre desiderato stare in una struttura come questa, dove si studia ma ci si può anche divertire con i coetanei. I miei genitori inizialmente erano dubbiosi sul fatto di scegliere una sistemazione di questo tipo rispetto ad un più tranquillo appartamento, ma per me è infinitamente più stimolante stare al Santa Chiara. Il primo anno di Università ho perso la capacità di studiare a certi ritmi, ora quando c’è da studiare qui sei circondato da gente con il naso sui libri: ho ritrovato motivazione e velocità».
In questo anno di pandemia, in cosa ti ha aiutato essere in Collegio?
«Per me questo è il secondo anno in Collegio, sono tornato a ottobre dopo aver subito un intervento chirurgico e ho passato il secondo lockdown qui. Anche se siamo in 20, siamo stati tutti molto responsabili: essendo obbligati a convivere, abbiamo osservato scrupolosamente le norme di sicurezza per non metterci a rischio vicendevolmente. Di questi mesi dominati dal Covid ricordo che fuori da queste mura si sentiva un’atmosfera davvero molto cupa, mentre dentro non si sentiva “aria di Covid”, la compagnia degli amici ti faceva staccare dal clima tetro generale».
Un senso di comunità che il Covid non ha scalfito
Carlotta, come siete riusciti a mantenere questo spirito di comunità di cui tutti parlano anche durante la pandemia mondiale?
«Senza dubbio anche noi abbiamo vissuto un anno molto difficile, perché con il secondo lockdown molti studenti comprensibilmente hanno deciso di tornare a casa. Credo che lo sforzo più grande sia stato quello di mantenere comunque il “clima di Collegio” con chi è rimasto. In concreto, nei momenti in cui è stato possibile abbiamo riproposto subito i nostri incontri di comunità, abbiamo sempre cercato di darci disponibili gli uni con gli altri, di incrociarci, di scambiare due parole in quei pochi momenti di presenza nel corso dell’anno. Soprattutto abbiamo cercato di starci accanto, anche se a distanza. Io credo che l’atteggiamento vincente sia stato quello di disponibilità e di accoglienza di fronte ad una situazione che ha messo tutti alla prova ma che in qualche modo abbiamo cercato di affrontare tutti insieme».
Zelia Pastore
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